
It Follows: recensione del film di David Roberts Mitchell con Maika Monroe e Keir Gilchrist
Titolo: It Follows
Genere: Horror
Anno: 2014
Durata: 94 minuti
Regia: David Robert Mitchell
Sceneggiatura: David Robert Mitchell
Cast principale: Maika Monroe, Keir Gilchrist, Jake Weary, Olivia Luccardi, Daniel Zovatto
Solitamente inizio una recensione con una breve sinossi del film appena visto, sintetica, oggettiva e limitata ai fatti narrati, ma non in questo caso. O meglio, potrei anche farlo (una ragazza fa sesso con la sua ultima tresca e da allora comincia a vedere strane creature che la inseguono a passo d’uomo e senza alcuna ragione apparente), e niente, alla fine l’ho fatto, ma il punto è che volevo solo evidenziare quanto poco spessore narrativo sia distillabile dal film in questione. Il plot di It follow è scarno, essenziale e apertamente programmatico.
Detto della pochezza della storia e avendo sprecato ben 500 battute in un verbosissimo incipit, è chiaro che tutto il valore semantico dell’opera è da ricercare altrove, nel misto di atmosfera e regia, graffio e stile, tensione e fascino che la pervade. Nell’horror l’intreccio, mi rassicurano, non è che un pretesto, un McGuffin. Ma un pretesto per cosa?
Partiamo dalle buone idee, dal concetto di spazio. Periferia di Detroit, periferia del Mondo, periferia della periferia. Uno dei tanti contesti suburbani possibile, che sia Detroit, Newark, Calcutta, Parigi o l’idroscalo di Ostia. E poi, accanto allo spazio simbolico, lo spazio scenico. L’importanza dello spazio, e per osmosi dello sguardo che lo penetra, è conclamata in tutto il film. Noi guardiamo David Robert Mitchell che letteralmente costruisce lo spazio filmandolo. Lo enuncia, lo plasma, lo partorisce con lo sguardo, rivelandolo sempre per gradi, con ariose panoramiche e muscolari carrelli. Uno spazio sempre inclusivo e mai esclusivo, esplicativo o selettivo.
Del resto il cuore drammatico del film è presto detto: la sensazione di essere seguiti e l’indistinto senso di minaccia che da esso ne consegue. Il film sublima brillantemente questa paura ancestrale ma da qui a costruirne un impianto narrativo da novanta minuti ce ne corre. La scansione diegetica in sostanza reitera sempre lo stesso pattern e la sua caratura espressiva si esaurisce ben presto. Senza dubbio la regia è abile, vivace, suggestiva, e articola la messa in scena con un uso magistrale della macchina da presa e della colonna audio, ma alla terza sequenza in cui sbirci sullo sfondo per avvistare lo stalker il giochino ha già stufato. Specie se l’istinto di conservazione degli interpreti non fa che manifestarsi nell’ennesima fuga rocambolesca o in vani e maldestri tentativi di uccisione – invece, che so, perché non provare a rinchiuderlo? -.
Ma forse il piantagrane sono io a farmi tutte queste fisime. In fin dei conti al cineasta non frega nulla della logica, della trama o del verosimile, parliamoci chiaro. Al regista interessa il messaggio, la tesi, la referenzialità e il simbolismo latente. La mia modesta conoscenza del genere horror mi conduce allora a un dubbio: chi sono i visitatori? Chi è It? O meglio, cosa rappresenta? È chiaro che un simile prodotto filmico non avrebbe senso e respiro mitico se non incentrato su un’allegoria o un simbolismo. E allora? In molti hanno ravvisato nella cosa la metafora dell’Aids e di tutte le malattie veneree, specie a fronte della cornice eighties in cui il contagio virale era davvero drammatico. Ma il senso è davvero così banale? A mio avviso no.
It diventa allora il disagio, la crisi, l’inadeguatezza, la paura, il panico, la paura della paura. Il panico che sedimenta nei contesti suburbani di emarginazione e degrado, in cui l’assenza di figure paterne, di controllo, di un senso di appartenenza, la fanno da padrone e germogliano scarabocchi di uomini che si aggrappano al sesso e ai demoni per la mancanza di alternative. Tutto l’universo simbolico del film è giocato sulla dialettica tra presenza e assenza, pieno e vuoto. It personifica il nulla, l’assenza, il vuoto. It non deve essere necessariamente qualcosa perché è la quintessenza del non-essere, il non-essere di questi adolescenti allo sbando che sperimentano il senso di vuoto con una tale forza da dargli forma, da crearne una sineddoche. È così che un’epifania antropomorfa e materica esce dalla mente e assume le sembianze di un’ombra, una presenza, uno stalker, che condannerà queste giovani vite all’inquietudine per il resto dei loro giorni (occhio al fotogramma finale).