
Io Capitano: il tentativo di uno sguardo diverso al dramma dell’immigrazione – Recensione del film di Matteo Garrone
Titolo: Io Capitano
Genere: drammatico
Anno: 2023
Durata: 2h 1m
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini
Cast principale: Seydou Sarr, Mustapha Fall, Issaka Sawadogo
Il Leone d’Argento a Venezia per la regia e il premio Marcello Mastroianni per il migliore attore esordiente sono biglietti di visita sufficienti a spiegare perché Io Capitano sia stato scelto come film italiano in concorso per entrare nella cinquina dei candidati all’Oscar come miglior film internazionale. Anche la tematica di sicuro impatto avrà certamente contribuito ad aggiungere punti nella personale classifica di chi ha fatto la selezione. Anche perché, a essere cinicamente onesti, non è che la concorrenza fosse poi tanta.
Inevitabile, quindi, porsi a questo punto il manzoniano dilemma: fu vera gloria?

Un punto di vista diverso
Ispirato alla vera storia di Mamadou Kouassi Pli Adama, punto di riferimento per gli immigrati presso il Centro Sociale ex Canapificio di Caserta, Io Capitano racconta il viaggio di Seydou e Moussa, due sedicenni di Dakar, che partono dal loro paese in Senegal per arrivare in Italia. La loro avventura assumerà presto le stigmate di una odissea omerica. Con due fondamentali differenze. Seydou e Moussa non stanno tornando a casa, ma scappando dall’assenza di futuro per cercarne uno possibile. E, soprattutto, l’Odissea di Ulisse era figlia della fantasia dell’aedo greco, mentre quella dei due ragazzi è il drammatico ritratto di una verità quotidiana. Una fedele rappresentazione in lingua originale (tra wolof e francese) delle atroci testimonianze degli immigrati sopravvissuti al viaggio verso le nostre agognate coste.
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La sfida che Io Capitano deve affrontare non è come confrontarsi con il dramma dell’immigrazione, ma piuttosto come distinguersi dai tanti servizi di informazione e cronache giornalistiche che questo viaggio hanno raccontato. Quasi superfluo ricordare, inoltre, quanto il tema dell’immigrazione sia ogni giorno al centro del dibattito politico e sociale con le diverse fazioni in cui l’opinione pubblica si divide che si scontrano anche pesantemente facendo degenerare ogni discussione sensata in una rumorosa sequela di frasi fatte e luoghi comuni. Aggiungere il proprio parere alla ridda di voci rischiando di venire sommersi dal rumore di fondo era un pericolo piuttosto serio.
Garrone e il suo team di autori cercano di sottrarre Io Capitano a questo conflitto scegliendo un approccio inizialmente diverso. Sarebbe stato facile e persino banale mostrare un Senegal oppresso dalla miseria e una coppia di ragazzi costretti a fuggire per sopravvivere. Invece, Garrone fa quasi l’opposto. Seydou e Moussa non vivono certo negli agi, ma il loro Senegal è fatto di affetti, canti, balli, colori, musica. Una felicità dipinta con una fotografia dai toni vivaci che ne esalta la rassicurante vitalità. Una condizione a cui non rinunciare come raccomandano con veemente sicurezza sia la madre di Seydou che chi ha già provato il viaggio.
Attenzione, comunque, a non fare di Io Capitano un manifesto del tipo “aiutiamoli a casa loro”. Non è questo che Garrone vuole dire perché i suoi Seydou e Moussa non rappresentano l’intero popolo dei migranti, ma solo sé stessi.

Un viaggio di formazione tra deserto e lager
Io Capitano non è paradossalmente un film sull’immigrazione. O, meglio, non è solo quello. La componente che vorrebbe essere dominante è quella del viaggio come romanzo di formazione. Seydou e Moussa non stanno fuggendo dalla guerra o della carestia come drammaticamente accade a chi è costretto a lasciare la propria terra natia. Per loro partire non è una necessità imposta da altri, ma una scelta personale dettata dal desiderio di essere come quei ragazzi occidentali. Perché è con loro che condividono gli stessi miti, guardano gli stessi video, ascoltano la stessa musica, sognano gli stessi obiettivi.
Il loro desiderio di partire nasce dall’illusione che basti superare quel viaggio per diventare poi quelli a cui i ragazzi bianchi chiederanno gli autografi. La loro disarmante ingenuità gli impedisce di dare il giusto peso alle difficoltà che pure gli hanno sempre detto avrebbero incontrato. Sfidare il deserto prima, i lager libici poi, i lavori sottopagati, le angherie dei trafficanti di uomini. Ostacoli che i due cugini sottovalutano nella puerile convinzione che, se ce l’hanno fatta altri, possono farcela anche loro, che sarà mai.
Io Capitano diventa la scoperta della verità. I diversi dolori che, prima insieme, poi divisi, di nuovo insieme Seydou e Moussa devono affrontare per strappare ad uno ad uno i veli che impedivano loro di vedere la verità. Non è un caso che anche le scene oniriche meravigliosamente disegnate scompaiono quando la realtà inizia ad imporre il suo tirannico dominio sui due ragazzi. Mostrandogli i cadaveri che punteggiano il deserto. Facendogli ascoltare le urla dei torturati dalla mafia libica. Incatenandoli nella schiavitù di caporali che li comprano come merce al mercato. Abbandonandoli su carrette del mare affidate a loro che non sanno neanche nuotare.
Sarà soprattutto Seydou a farsi protagonista di questo bildungsroman per immagini. È, infatti, su di lui che si concentra Io Capitano seguendone i passi che lo porteranno a maturare. Una metamorfosi da crisalide a farfalla che avviene attraverso il progressivo cambio di prospettiva. Non più il viaggio come strumento per raggiungere il proprio egoistico sogno. Ma come percorso ad ostacoli in cui scoprire l’importanza di non lasciare indietro nessuno. Fino alla consapevolezza orgogliosa di poter essere lui il capitano a cui tocca salvare chi gli ha affidato l’unica ricchezza che possiede: la propria vita.
Io Capitano è allora un film il cui senso non va equivocato. Racconta il dramma dell’immigrazione, ma ne fa uno strumento per parlare di un romanzo di formazione.

Vittima della propria perfezione
Questa duplice natura, dramma dell’immigrazione e romanzo di formazione, indirizza la risposta alla domanda all’inizio di questa recensione: fu vera gloria? Merita Io Capitano di rappresentare l’Italia agli Oscar? Probabilmente si, ma più per esclusione che per selezione. Ossia, più perché non c’era altro di meglio che perché il film sia pienamente riuscito. Questo non significa che i premi ricevuti a Venezia non siano meritati. La regia di Garrone è sicuramente pulita e ricca di momenti di sicuro impatto visivo come i sogni di Seydou e le scene nel deserto con le figure che si perdono nell’immensità di una natura superba e indifferente.
E, tuttavia, Io Capitano resta vittima della sua perfezione formale. Il film non omette nulla del viaggio di Seydou e Moussa rimanendo fedele al dettato delle testimonianze raccolte. Non ha paura di essere esplicito mostrando la crudezza della realtà e non tacendo della cattiveria che si impossessa degli uomini quando il mors tua vita mea da detto latino diventa ultima speranza di salvezza. Però, proprio questa scelta in parte obbligata rende il film non dissimile dai tanti reportage di inchiesta a cui lo spettatore è già abituato. Ne consegue una ampia prevedibilità del racconto che si dipana per tappe tanto obbligate quanto scontate. La qualità superiore della regia non è motivo sufficiente per indurre il pubblico in sala ad entrare in sintonia con lo svolgimento del tema. Tutto finisce per essere inevitabilmente già visto.
Un peccato che finisce per svalutare anche le prove del cast perché i personaggi hanno volti diversi, ma ruoli identici a quelli che la cronaca ha fatto già conoscere. I truffatori senza scrupoli. I soldati corrotti senza alcun senso del dovere. Gli sfruttatori cinici. I torturatori spietati. I trafficanti malvagi. La guardia costiera maltese opportunamente indifferente. Ma anche la fratellanza istintiva tra oppressi. Il coraggio caparbio di chi vuole farcela. La serena rassegnazione degli ultimi. La vittoriosa speranza dei pochi che ce la fanno. Tutto troppo già noto per poter attirare l’attenzione partecipe di un pubblico che è purtroppo assuefatto a questi orrori. Tanto più merito va, quindi, dato all’esordiente Seydou Sarr che riesce, nonostante queste premesse, a rendere vivo il proprio personaggio donando spessore tridimensionale ad uno stereotipo unidimensionale
Io Capitano è un film che va indubbiamente visto e, forse, persino proiettato nelle scuole per ricordare cosa è davvero il dramma dell’immigrazione. Solo che fare didattica non è la stessa cosa che fare cinema. Per quello ci vuole quel qualcosa in più che qui manca.
Io Capitano: la recensione
Regia e fotografia
Sceneggiatura
Recitazione
Coinvolgimento emotivo
Un film che prova a guardare il dramma dell'immigrazione da un punto di vista diverso, ma finisce per assomigliare troppo ad un reportage giornalistico girato con più maestria