
I Love Dick: quando le donne si raccontano
Caro lettore, come è possibile sentire la mancanza di una serie tv ancor prima di averla vista?
Per quanto strano possa sembrare iniziare la recensione di una serie tv rivolgendosi ad un potenziale lettore (caro lettore) ponendogli una domanda, è probabilmente questo il modo migliore per introdurre questa serie e lo è per diverse ragioni. La prima è sicuramente la natura intima della serie stessa, sia per l’argomento che tratta sia per il modo con cui chiede al suo pubblico di predisporsi alla visione. L’altra è la struttura del racconto: sguardi diretti in camera, fermimmagine e titoli a caratteri cubitali riportano sullo schermo la fluidità stilistica del testo a cui la serie si ispira.
Quando uscì nel 1997 I Love Dick non fu accolto con molto entusiasmo, tanto che furono vendute poco più di 100 copie. Fino al 2006, anno in cui viene ristampato da Profile Books: grazie ad un intenso passaparola il romanzo sperimentale di Chris Kraus ha finito per essere riconosciuto come un vero e proprio manifesto del femminismo. La protagonista del libro si chiama Chris ed è una regista sulla soglia dei 40 anni sposata con Sylvère, professore universitario molto più vecchio di lei che decide di prendersi un anno sabbatico e trasferirsi con la moglie in un piccolo paesino della California. Qui incontrano Dick, un affermato sociologo nei cui confronti Chris sviluppa un’ossessione crescente, che mette in discussione il suo matrimonio e non solo.
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L’ossessione è dunque il motore della storia di I Love Dick e del suo adattamento per Amazon ad opera di Sarah Gubbins e Jill Soloway. La creatrice di Transparent, altra serie pioneristica prodotta dal colosso americano, continua in questo nuovo progetto ad indagare su come l’identità sociale sia imprescindibile dall’identità sessuale. E lo fa in un luogo simbolo dell’America di oggi, Marfa. Mecca dell’arte contemporanea, la cittadina è balzata alle cronache una decina di anni fa per il Prada Marfa, un’installazione permanente del duo artistico Elemet & Dragset, che ricalca in tutto e per tutto una boutique del famoso marchio di moda abbandonata al suo destino nel deserto texano.
Quando Chris approda in città è una donna sull’orlo del precipizio: da anni non ha più rapporti sessuali con il marito e la sua carriera lavorativa sembra non riuscire mai a prendere il verso giusto. Kathryn Hahn è la perfetta interprete dalla goffaggine e insicurezza che tormenta il suo personaggio. Il suo approdo a Marfa e quell’intenso incontro con Dick accendono in lei un desiderio sopito, una libidine sessuale e artistica che trova concretezza nelle lettere che dedica a quell’uomo misterioso che desidera a prescindere dall’essere desiderata. Per lei Dick è il “Dio Romano del sesso”(interpretato da un sensuale e taciturno Kevin Bacon), che riaccende la passione di un matrimonio alla deriva. Perché quel fuoco risveglia Chris come suo marito, portando in essere un insolito ménage à trois. Quelle lettere, su stessa ammissione di Sylvère, non sono che lettere all’amore.
La morbosità con cui Chris brama Dick, che nella serie non è un sociologo ma bensì un artista, va ben oltre il suo essere oggetto sessuale. Il cowboy genio e solitario è infatti il simbolo di una società patriarcale, statica, fallocentrica (non a caso la principale opera esposta nell’istituto diretto da Dick è un mattone, in posizione eretta su una colonna nuda) da cui Chris, Devon, Paula, Toby sono attratte e al tempo stesso respinte. Il meraviglioso e coraggioso quinto episodio A Short History of Weird Girls racconta l’origine del loro desiderio, legandolo alla figura mitizzata di Dick ma soprattutto al loro essere donne, volti diversi di un unico universo, che le identifica come persone e come artiste.
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All’interno della narrazione, Jill Soloway e gli altri registi – il Premio Oscar Andrea Arnold, Jim Frohna e Kimberly Peirce – inseriscono brevi estratti di opere multimediali e film realizzati da donne. Un piccolo esperimento che apre ad un discorso sull’arte contemporanea e sulla sua fruibilità da parte del pubblico, affrontato non senza uno spirito critico e ironico. Se infatti la meraviglia che genera la visione di un dipinto di Van Gogh o di una statua del Bernini è un dato quasi oggettivo, come possiamo avvicinarci ad una performance di Marina Abramovic, ad uno spettacolo di Liz Lerman o ad un video di Naomi Uman e riuscire a coglierne la bellezza e il significato?
Ben lontana dal seguire la linea retta della perfezione, I Love Dick ha il pregio di allontanarsi dal rassicurante baricentro propinato dalla maggior parte della serialità televisiva. Questa audacia però può essere facilmente scambiata per arroganza, portando lo spettatore a ritrovarsi nella stessa condizione delle protagoniste, attratto e al tempo stesso respinto da quello che sta vedendo. E a domandarsi se ci fosse davvero bisogno di una serie come I Love Dick. La risposta è sì.
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