
Hunters e la domanda senza risposta – Recensione della prima stagione
Di ogni tragedia è sempre difficile parlare. Ma delle tragedie della storia è spesso addirittura doveroso parlarne perché ciò che è stato faccia da memento mori, affinché gli stessi errori non generino ancora gli stessi orrori. Solo che parlare è un verbo che può declinarsi in tanti modi diversi. Che diventano ancora più numerosi quando il parlare avviene tramite un prodotto cinematografico o una serie tv. È proprio per questo che diventa complesso giudicare Hunters. Nonostante ci sia Al Pacino.

Tra hype e campanelli d’allarme
Distribuita da Amazon Prime e annunciata da una vigorosa campagna di marketing (con manifesti anche nelle metropolitane, cosa insolita per serie tv in streaming), Hunters aveva generato una non indifferente attesa. Anche perché nel trailer impazzava un Al Pacino che non è uso concedersi al piccolo schermo. Se si esclude Angels in America andata in onda nel 2003 e qualche rara comparsata, il pluripremiato attore newyorkese non aveva mai impreziosito nessuna opera seriale con la sua maestria interpretativa. Uno di quei rari casi in cui basta un nome solo a far schizzare alle stelle l’hype.
Il monologo di Pacino nel trailer riusciva addirittura a far alzare ulteriormente l’asticella delle attese. Un intenso primo piano che chiariva che Hunters sarebbe stata la storia di una vendetta covata a lungo. Ebrei a caccia di nazisti in un’inversione di ruoli con la vittima che può finalmente punire il carnefice. E, tuttavia, i verbi usati in quel discorso dovevano già far capire che la questione si sarebbe fatta alquanto spinosa. Perché parole come caccia e punire possono facilmente diventare aliene al concetto di giustizia. Almeno come la intendiamo noi europei e non come la vedono gli americani ancora attaccati alla legge del far west e delle armi per tutti.
Ed infatti così è stato alla fine. All’hype hanno presto fatto seguito le polemiche da parte di chi fatica ad accettare che il racconto televisivo possa concedersi delle libertà creative così estreme da tradire volutamente la storia reale. Argomento che si fa particolarmente spinoso quando si parla della Shoah. Sebbene quasi nessuno dei personaggi citati da Hunters sia realmente esistito, attribuire loro episodi inventati rischia di sminuire ciò che è stato. Come se l’orrore reale non fosse sufficiente a descrivere la tragedia dei campi di concentramento, ma ci fosse bisogno di spingere ancora di più sul macabro per convincere lo spettatore della malvagità nazista.
Hunters fa questa scelta peccando probabilmente per superficialità più che per convinzione. Agli autori non interessa raccontare ciò che è stato il passato, ma solo farne lo spunto per il loro presente immaginario. Scelta che è sempre lecita, ma che avrebbe richiesto una sensibilità specifica nel caso di un evento la cui memoria non può essere tradita o ridotta a favoletta nera.


Tanto tuonò che…
Ci si potrebbe cinicamente domandare se infilarsi in un tale ginepraio polemico sia stata una strategia opportunamente valutata. D’altra parte, già Oscar Wilde aveva anticipato con altre parole il mantra di ogni esperto di marketing. Ammoniva, infatti, che “c’è solo una cosa peggiore dell’essere oggetto di chiacchiere: il non essere oggetto di chiacchiere”. Ma tutto questo rombante tuonare è stato, infine, seguito da un altrettanto roboante temporale? È stato Hunters all’altezza dell’hype generato e dell’attenzione che si è attirato?
Non sarà inopportuno citare Orazio e il suo “parturient montes, nascetur riduculus mus” (i monti avranno le doglie del parto, nascerà un ridicolo topo). Una affermazione, forse, esagerata perché ci sono molte cose che si lasciano apprezzare in Hunters. I dialoghi tra il Meyer Offerman di Pacino e il suo pupillo Jonah (interpretato da un convincente Logan Lerman) costringono spesso lo spettatore a confrontarsi con questioni morali complesse, forzandolo a chiedersi dove sia il confine tra vendetta e giustizia. La storia si sviluppa con una sua coerenza interna, sebbene vada a intrecciare fatti reali (la fuga sotto copertura in America di molti ufficiali e scienziati nazisti) con fantasiose teorie del complotto e infondate leggende urbane. E il ritmo altalenante della serie non disturba facendo così di Hunters una serie che sa intrattenere dopotutto piacevolmente.
Eppure, il principale difetto di Hunters è che ognuno di questi punti a favore non ha lo spessore necessario a lasciare un ricordo duraturo di sé. Sono esili spiriti destinati a dissolversi nell’aria sottile. Da una serie che poteva contare su un cast solido impreziosito dalla gemma Al Pacino era lecito attendersi di più. Se si vuole affrontare un argomento spinoso come il redde rationem tra vittime e carnefici, si deve lasciare un segno che non sia solo quello di polemiche ad hoc. I mezzi per dare di più c’erano. Non usarli è aver sprecato una irripetibile opportunità.
Insomma, tanto tuonò che piovve. Ma era solo una pioggerellina passeggera che si è asciugata in fretta.
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Tra anni Settanta e Tarantino
Che cos’è, quindi, Hunters alla fine? Volendo semplificare al massimo, si potrebbe rispondere che è un Bastardi senza gloria ambientato negli anni Settanta e spalmato su dieci episodi. Sintesi estremizzante, ma non scorretta. Perché gli Hunters guidati da Meyer sono la versione civile dei Bastardi di Aldo l’Apache. Dove qui civile si riferisce al loro non essere militari addestrati, ma privati cittadini che mettono le loro doti non comuni al servizio di una causa molto simile. Come ad Aldo e i suoi interessava solo spaventare e uccidere i nazisti, così agli Hunters interessa solo essere cacciare e punire. Dove punire è sinonimo di uccidere e non ha niente a che vedere con i concetti di giustizia e legge o con gli insegnamenti meno violenti dello stesso Talmud.
I personaggi di Hunters sono, quindi, tutti volutamente estremi al punto da apparire persino macchiettistici. Un attore vanesio in perenne ricerca del centro dell’attenzione abile a sfangarla sempre grazie alla sua dialettica. Il veterano del Vietnam che nella caccia cerca la sua espiazione per la strage degli innocenti a cui incolpevolmente ha partecipato in guerra. Una ragazza afro americana legata ai movimenti in stile Black Panther che si batte con passione per una causa non sua. I due anziani coniugi improbabili esperti di ogni tecnologia. Una suora sboccata che mette e toglie la tonaca come fosse una divisa tra le tante per mascherare le sue abilità da inafferrabile agente segreto e spietato sicario.
Personaggi che non sfigurerebbero in un ipotetico sequel di Bastardi senza gloria. Stesso discorso inevitabilmente anche per i villain della serie. Si sentono echi dell’indimenticabile colonnello Hans Landa nel suo pari grado interpretato da un’elegante Lena Olin intenta a creare il Quarto Reich. Un personaggio intelligente che preferisce tramare nell’ombra che fa risaltare per contrasto il Biff Simpson di Dylan Baker che è invece incapace di non farsi notare. Su tutti emerge, comunque, il nazista a stelle e strisce Travis che nasconde dietro i modi calmi e il volto pulito una violenza sempre pronta ad esplodere e un sadismo che non si ferma neanche di fronte ai bambini.
È proprio questo parterre di personaggi a fare di Hunters una serie gradevole. Solo che… serviva davvero scomodare Al Pacino e la Shoah per dieci episodi che si dimenticano dopo averli visti?