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Hostages: la recensione – Anteprima dalla Festa del Cinema di Roma

Titolo: Hostages

Genere: drammatico

Anno: 2017

Durata: 1h 43min

Regia: Rezo Gigineishvili

Sceneggiatura: Lasha Bugadze, Rezo Gigineishvili

Cast principale: Irakli Kvirikadze, Tinatin Dalakaishvili, Giorgi Grdzelidze

Tra i tanti motivi per cui un appassionato non smetterà mai di ringraziare il momento in cui ha ricevuto l’accredito ad un festival del cinema quale esso sia c’è anche la invidiabile possibilità di allargare i propri orizzonti culturali. Non limitarsi solo a quello che i distributori decidono di far arrivare in sala secondo il loro insindacabile giudizio, ma anche film da paesi normalmente estranei agli usuali canali distributivi. Come la Georgia da cui viene questo Hostages.

HostagesGli altri anni Ottanta

Presentato alla prestigiosa Berlinale, la quarta fatica del regista georgiano Rezo Gigineishvili approda in Italia come anteprima alla Festa del Cinema di Roma senza che sia chiaro se e quando potrà essere visto anche nelle sale italiane. Acquistato dalla londinese West End, Hostages ha le caratteristiche giuste per riuscire a valicare i ristretti confini patri per arrivare in quell’occidente vagheggiato dai suoi protagonisti.

Ispirato fedelmente ad un fatto di cronaca vera del 1983, il film racconta il subito prima, il durante e il dopo del tentato dirottamento del volo Aeroflot 6833 partito da Tbilisi e diretto a Batumi da parte di un gruppo di ragazzi di estrazione sociale piuttosto alta che intendevano in questo modo raggiungere la Turchia per lasciare l’Unione Sovietica. Niente andò come progettato e neanche come uno spettatore abituato agli stilemi occidentali potrebbe immaginare. Ma più che l’epilogo e lo svolgimento, il primo aspetto di Hostages che colpisce chi guarda è la descrizione asettica e perciò ancora più cruda di un mondo sconosciuto.

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I protagonisti di Hostages sono coetanei dei tanti ragazzi che attraversavano con spensierato edonismo gli anni Ottanta nelle luccicanti città italiane, francesi, inglesi, americane. Ma gli anni Ottanta di Tbilisi non sono quelli dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, dei paninari e dei dark, dei piumini Monclair e delle Timberland, di Drive In e della festa continua. Questi sono gli altri anni Ottanta. Quelli che la cortina di ferro della guerra fredda nascondeva agli occhi distratti di un occidente opulento. Quelli dove i Beatles e Jimi Hendrix non erano ricordi lontani, ma novità rivoluzionarie. Quelli dove le sigarette Camel erano un lusso da agiati anticonformisti. Quelli dove gli abiti sono maglioni ordinari e gonne lunghe, cappotti grigi e scarpe a basso prezzo. Quelli dove frequentare un pope ortodosso è un rischioso azzardo e servire messa come chierichetto è un sedizioso atto rivoluzionario. Quelli dove soldati armati possono importi di rivestirti e andare via in fretta perché anche un tuffo in un mare serale è vietato.

Un mondo plumbeo restituito da una fotografia livida e una regia quasi documentaristica che vuole mostrare quello che per noi è difficile immaginare. Una realtà distante nel tempo che è stata il presente opprimente da cui non poteva che germogliare il fiore di una rivolta quale essa sia. Una ribellione inutile e irrealizzabile, un urlare sapendo di non avere voce ma di non poter fare a meno di provarci perché anche fallire sarà meglio che rassegnarsi a tutto quel grigio.

HostagesL’impossibilità di capire

Hostages gioca sull’ambiguità del suo titolo: chi sono gli ostaggi? Secondo l’interpretazione più ovvia che la sinossi del film suggerirebbe, i passeggeri del volo dirottato dovrebbero essere gli ostaggi. Tuttavia la verità è più profonda e articolata perché ostaggi sono, in fondo, tutti i personaggi del film, quale che sia il lato della barricata da cui si trovano. Ostaggi nel senso di prigionieri non solo dell’onnipresente ed invasivo regime sovietico, ma anche e soprattutto dell’impossibilità di capirsi.

Che cosa gli mancava? è la domanda che apre il film e più volte viene ripetuta senza che mai si arrivi ad una risposta. Nika, Anna, Koka, Sandro, Irakli sono ragazzi di quella che si potrebbe definire l’élite della ingessata società sovietica e possono permettersi quelle normalità che per molti a quell’epoca erano lussi. Possono fumare sigarette americane ed ascoltare dischi di musica rock; possono studiare con calma o dedicarsi all’arte senza essere pressati dal regime che vuole soldatini obbedienti. Possono sposarsi e celebrare il loro matrimonio con una festa ricca di invitati e suonatori. Possono persino permettersi di andare in vacanza. E allora che cosa gli mancava? Perché dovevano andare via? Perché in quel modo tanto assurdo e violento?

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Perché, in realtà, il tutto che avevano è il niente di quello che sarebbe spettato loro. È l’assenza di ogni futuro che non sia incasellato negli schemi di un regime che non concepisce la libertà individuale. È la mancanza di ogni colore che trasforma anche il cielo in un tetto troppo basso. È la consapevolezza che il domani non sarà diverso da ieri e da oggi finché non ci si rassegnerà ad essere quello che già si sentono: ostaggi.

HostagesLa rinuncia all’illusione

Hostages punta la sua lente di ingrandimento sul gruppo di dirottatori improvvisati, ma non dimentica neanche gli altri. Quegli adulti che alla loro condizione di ostaggi si sono così tanto abituati da non riconoscerla neanche più come tale. Genitori che non possono comprendere i propri figli perché quel mondo aldilà della cortina è per loro l’hic sunt leones che i Romani scrivevano sulle mappe geografiche per indicare l’ignoto. Che cosa ti fa pensare che dall’altra parte vivano meglio di noi? chiede esplicitamente il padre di un amico del gruppo che non ha partecipato al dirottamento. Quella che per i ragazzi è la speranza per gli adulti è ormai un’illusione a cui hanno rinunciato. Un prezzo che hanno pagato per vivere con dignità e un briciolo di felicità l’essere ostaggi.

Hostages è un film profondo che si prende i suoi tempi lunghi per descrivere una società più che i suoi protagonisti. Non è un caso che tutto il processo di maturazione dell’idea del dirottamento non venga mostrato perché l’intenzione degli autori era lasciare che siano gli spettatori ad arrivare a quei motivi. Per questa stessa ragione, la regia si mantiene asettica, ma non rinuncia a fornire un quadro a tutto tondo dedicando il giusto spazio anche alla festa che mostra come si possa essere felici anche in quel mondo ingiusto. È da quel momento che il film inizia a cambiare ritmo accelerando come la musica dei suonatori al matrimonio e concedendosi riusciti virtuosismi come il lungo piano sequenza di Nika che saluta i parenti prima della partenza e la tarantiniana sparatoria sull’aereo. Alla riuscita del film contribuisce anche il cast di attori inevitabilmente poco noti, ma tutti estremamente intensi nelle loro interpretazioni.

Se con Hostages la Festa del Cinema di Roma intendeva dimostrare che anche dalle remote province fuori dal regno si può fare cinema interessante, lo scopo è stato pienamente raggiunto. Non resta che sperare che lo capiscano anche i distributori e permettano anche al grande pubblico di godere dei privilegi di chi è accreditato ad un festival.

Winny Enodrac

Vorrei vedere voi a viaggiare ogni giorno per almeno tre ore al giorno o a restare da soli causa impegni di lavoro ! Che altro puoi fare se non diventare un fan delle serie tv ? E chest' è !

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