
Home Video: The Lobster: la recensione del film con Colin Farrell
In un posto non precisato di un mondo decisamente distopico, si muovono personaggi con atteggiamenti piuttosto bizzarri. I ragionamenti dei protagonisti di The Lobster, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, ma anche quelli che sottostanno alle “regole del gioco” sono guidati da un sottile, amaro e a tratti grottesco nonsense, che fa dell’opera del regista greco una commedia nera, o una tragedia addolcita, che dir si voglia.
Il gioco serio cui faccio riferimento è un pretesto narrativo molto insolito e curioso, che spinge ad andare al cinema per saperne di più. Un discreto numero di persone, uomini e donne senza compagna o compagno, vanno ad alloggiare in un lussuoso hotel fuori dalla portata del mondo urbano civilizzato. Non si colgono inizialmente i reali motivi di questa permanenza collettiva e d’altra parte la pellicola non approfondisce l’argomento a livello macroscopico, e si concentra invece sulla storia di David, interpretato da un Colin Farrell che non delude mai. Al termine di un infelice matrimonio, egli si reca nel suddetto hotel in compagnia di un cane, che già conosce il posto…
Niente di più pacifico, se non che le condizioni inflessibili dell’hotel sono chiare: i single hanno 45 giorni per trovare un/una compagno/compagna con cui formare una coppia, periodo al termine del quale, nel caso in cui non si incontri la dolce metà, i clienti vengono trasformati in animali, da loro scelti all’inizio della permanenza.
I dialoghi al limite dell’assurdo e del grottesco risultano stranianti e proprio per questo spassosi. Le improbabili associazioni di idee che tanto ci fanno ridere celano, come la migliore satira riesce fare, un malessere ideologico che è insito nelle persone oltre che nel sistema. Tema portante delle pellicole distopiche contemporanee come questa è l’ossessione dell’uguaglianza, dell’omologazione, che si nasconde dietro a delle battute che divertono lo spettatore, come la logica naturale secondo la quale due specie diverse di animali non possono formare una coppia. Allo stesso modo i protagonisti di questa avventura surreale ricercano l’affinità, il tratto in comune per poter entrare in contatto, prima occasionale e poi intimo. Persino i difetti come le frequenti emorragie dal naso o la miopia si trasformano in un appiglio ontologico di grande spessore. Senza tratti in comune non c’è dialogo, senza dialogo non c’è coppia e senza coppia la propria identità è fortemente a rischio.
Non si tratta dunque solo di una distopia imposta dall’alto, ma di una nuova mentalità del singolo, che non può far altro che ricercare un simile, o simulare di esserlo per salvarsi. Ma da cosa?
Ben presto si scopre l’esistenza di un microcosmo culturale parallelo che solo in apparenza si ribella in nome della libertà degli individui singoli. Estremo allo stesso modo, ma in direzione opposta, nella foresta si nasconde un gruppo di individui solitari, che vietano severamente (quasi più dell’hotel) la formazione di coppie. A dimostrazione del fatto che a posizioni drastiche rispondono soluzioni ancora più tremende, l’intesa che c’è tra David e la donna miope (Rachel Weisz) deve rimanere un rapporto nascosto, raccontato tramite un linguaggio codificato e silente, per sfuggire alla violenza repressiva di qualsiasi tipo di sentimento.
Da una parte dunque si trova un mondo in cui la coppia è imposta, dove l’anima gemella vera è più unica che rara, se non impossibile, dove il rapporto tra uomo e donna è puramente opportunista, imposto, ipocrita e convenzionale (come le stesse dimostrazioni animate mettono in scena, mostrando gli svantaggi e i pericoli dell’essere single), nonché omologato a tutti gli altri (vedi le “divise” tutte identiche degli uomini e delle donne, celate dietro ai vestiti gentilmente offerti dall’hotel). Dall’altra invece si colloca quella dimensione che dovrebbe essere all’insegna della libera espressione dell’individualità, ma che si riduce ad un universo parallelo, con regole ugualmente rigide, che trasformano i suoi membri in egoisti senza umanità. La libertà di scegliere di starsene per conto proprio diventa un obbligo vero e proprio e qualsiasi manifestazione di altruismo o qualsivoglia sentimento viene punito duramente.
Dove sta la soluzione di compromesso? Nell’innocente e tentennante rapporto tra i due innamorati, che non possono esimersi dal pensare in quei modi assurdi imposti dall’hotel, dai solitari o dal sistema, ma che non possono d’altra parte fare a meno di stare insieme. Trasgressori per entrambi i fronti, l’unico momento (a noi mostrato) di effusione passionale è accompagnato da una melodia che non può che destare brutti presentimenti: Giochi proibiti, suonato da un duetto di chitarre.
Benché non si tratti di un picco di eccellenza, è un film pieno di spunti di riflessione, in cui il regista smaschera molte delle ipocrisie e le violenze dei rapporti sociali mostrandone gli estremi più radicali che impediscono qualsiasi libertà di scelta, per un verso o per l’altro. Le situazioni decisamente assurde in cui i personaggi si trovano fanno sorridere, fanno ridere di gusto, ma sono trattate in modo freddissimo e cinico, con lo stesso sguardo poco espressivo che hanno i personaggi, in balia di un universo distopico in cui i sentimenti sono o imposti o vietati, ma in ogni caso incanalati in un progetto di acclimatazione, sociale o antisociale.
È un incubo divertente dietro a cui serpeggia una violenza sottile e terribile sull’individuo, che deve necessariamente essere incasellato in categorie descrittive fisse e precise: in questi termini, non può che trattarsi di una elaborazione fantascientifica e drastica di un processo già in atto nel nostro mondo, nella nostra cultura.
D’altra parte le distopie prendono sempre spunto dalla realtà, mostrandone gli effetti collaterali: Lanthimos fa lo stesso, e a tratti fa anche ridere di gusto.
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