
Grace di Monaco: la recensione
I film biografici sono sempre molto attesi, precocemente criticati e in ogni caso avidamente discussi. Grace di Monaco di Olivier Dahan, fin dalla sua genesi, è stato oggetto di morbosa attenzione da parte dei media, essendo il primo, audace tentativo di raccontare la leggenda della principessa attrice.
La premessa è ambiziosa e ha incontrato subito l’ostilità della famiglia reale monegasca, che si è dissociata con veemenza dal progetto. Quale modo migliore per infiammare l’interesse del pubblico?
Dahan e Arash Amel, che firma la sceneggiatura, hanno scelto di concentrarsi su un arco temporale definito: la crisi politica tra il Principato e la Francia tra il 1960 e il 1962, che sarebbe corrisposta a una tanto chiacchierata crisi personale della principessa, ricorteggiata da Hollywood.
Come già in The Queen e nel recente Diana, giusto per restare in ambito royal, isolare un momento particolarmente significativo mira a evidenziare i tratti di una personalità che ne giustificano il mito, svelandone l’umana forza e l’altrettanto umana debolezza.
Ma, tanto quanto The Queen centra il bersaglio e Diana lo manca alla grande, Grace tragicamente non prende neanche la mira.
L’obiettivo di Dahan è raccontare Gracie, la donna dietro l’icona, ma chi ci viene presentata è solo una casalinga lacrimosa, depressa e deprimente. Una ricca principessa costretta a lottare contro tutto e tutti per far del bene, ricostruire un orfanotrofio, salvare il regno di un marito indeciso e orgoglioso da quel bischero del generale De Gaulle, che vuole “portar via” la felicità del Principato, il paradiso (fiscale) della bellezza e della “serenità a cui tutti aspiriamo”. E, insomma, far pagare le tasse al povero Onassis.
A incorniciare questa lotta di buoni sentimenti, una luce zuccherosa, un bagliore perenne da tardo pomeriggio estivo, che avvolge Grace nella sua segreta sofferenza (e nasconde le rughe di troppo dal volto della 46enne Kidman).
La cinematografia affascinante di Dahan e il cast dalle potenzialità eccellenti purtroppo non sopravvivono ai molteplici difetti del film. Tra questi, la poca chimica tra la statuaria Kidman e il bravo Tim Roth, perennemente ingessato in un Ranieri – detto Ray – con la mano in tasca e la sigaretta in bocca.
Di fronte alla vacuità dei personaggi, l’insistenza dei primi piani non ripaga in intensità, ma sembra solo un disperato tentativo di cavar fuori idee da ottimi attori, messi a recitare un’operetta da tv. Una triste constatazione se si pensa che con La Vie en Rose nel 2007 Dahan ha diretto una Cotillard da Oscar.
Diversi i riferimenti hitchockiani, come la corsa in macchina di Caccia al Ladro, che allude (senza dubbio volontariamente) alla fine tragica della principessa 32 anni or sono, ma che pecca di un tono inutilmente melodrammatico.
I personaggi secondari sono a tratti macchiettistici, come la burbera assistente di Grace, o tristemente stereotipati, come il fedele confidente frate Tuck (Frank Langella) e il Conte Fernando D’Aillieres (Derek Jacobi), maestro di buone maniere.
L’antistoricità di certe licenze poetiche poi, (Hitchcock non visitò mai la sua musa a Monaco, né De Gaulle partecipò mai a un Ballo della Croce Rossa) non è nulla se paragonata agli escamotage narrativi più adatti a film come Pretty Princess, che a una pellicola su una diva dal fascino intramontabile. Uno a caso, il corso accelerato di “princessitudine”, a cui Sua Altezza Serenissima si sarebbe sottoposta per consolidare la sua corona (e il suo francese) dopo 7 anni di vita nel Principato e 2 figli.
Gli eventi cruciali dell’estate del 1960, raccontati attraverso l’eccessiva sensibilità di Grace, sono romanzati in modo grossolano, non c’è altro modo per dirlo. Che cos’è questo film? Un dramma matrimoniale? Un thriller spionistico? Un coming of age movie in salsa francese?
Difficile capirlo, tanto quanto è facile comprendere l’astio dei Grimaldi, sceneggiatura alla mano. Non regge la polemica tra il regista e i potenti distributori americani sul final cut, che avrebbe pregiudicato il risultato. Né la confessione di Dahan di aver voluto girare non un biopic, bensì “il ritratto umano di una donna moderna”. Il film è vuoto di contenuti, tremendamente superficiale e a tratti piuttosto noioso.
Rimane l’amarezza di un’intuizione felice, vittima di uno script imbarazzante, che, invece di raccontare la donna dietro il mito, alimenta il mito stesso, svuotato però del mistero che lo rende tale.
Come nel mediocre Diana, la scena di apertura segue la protagonista di spalle creando la suggestione della sua presenza, dell’imminente incontro con una leggenda. La seguiamo a passi discreti, accettando l’invito di entrare nell’intimità della sua storia. Storia che purtroppo entrambi i film non racconteranno mai.
Grace di Monaco fallisce, sviolinando (malamente) una favola idealizzata, quella stessa favola da cui Grace Kelly si è più volte voluta distanziare e che il film stesso vorrebbe così arditamente decostruire.