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GLOW: le cose possono solo migliorare | Recensione della prima stagione

Hulk Hogan, Macho Man, André The Giant, The Undertaker: quando pensiamo al wrestling l’immagine che si palesa davanti ai nostri occhi è quello di un uomo muscolo, imponente e con un improbabile taglio di capelli.
Eppure nel 1986, in un mondo ad esclusivo appannaggio degli uomini, comparve G.L.O.W. – Gorgeous Ladies of Wrestling: donne glitterate e cotonate (per la maggior parte attrici), pronte a darsele di santa ragione sul ring. Lo show durò relativamente poco (fu trasmesso fino al 1990) ma finirà per diventare un piccolo cult.

Il team di Orange Is the New Black, capitanato da Liz Flahive e Carly Mensch, ha deciso che quella della Bellissime Donne del Wrestling fosse una storia da raccontare (o almeno una parte di questa). GLOW, la serie di Netflix, si ispira alle vicende di queste impavide donne che decisero di intraprendere un percorso lavorativo, finora riservato agli uomini, facendo leva su tre aspetti fondamentali: personalità, determinazione e solidarietà.

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© 2017 – Netflix

In un anno televisivo che ha visto la donna – finalmente – sempre più soggetto più che oggetto delle storie prodotte e viste, GLOW cade a pennello, presentando al pubblico una vicenda poco nota ai più ma molto efficace.

L’America degli anni ’80 che fa da sfondo alla narrazione è fondamentale per certi aspetti (uno su tutti la popolarità del wrestling in quel decennio) ma per altri relativa: chi potrebbe dire che nel 2017 le donne hanno la possibilità di scegliere pienamente per se stesse, di essere considerate al pari dei propri colleghi sul lavoro, di esprimersi al meglio come persone ma soprattutto come donne? 

Le donne di GLOW non sono quindi tanto diverse dalle donne del 21° secolo. All’audizione al buio organizzata dal regista di b-movie Sam Sylvia (ispirato al vero creatore dello show televisivo, Matt Climber) si presenta un nutrito gruppo di donne, molto diverse tra loro eppure unite da un grande desiderio: avere finalmente un’opportunità.
Ruth che vorrebbe interpretare dei ruoli che lo star system affida solo agli uomini, Debbie che ha creduto che la maternità potesse in qualche modo sedare la sua sete di set, Cherry che non riesce più a lavorare perché troppo nera in un’industria cinematografica sempre più bianca, Carmen che ha sempre desiderato seguire le orme del padre e dei fratelli ma è sempre stata frenata dagli stessi, convinti che la sua strada fosse quella di trovare un marito e accasarsi. E ancora Sheila e Melrose e Justine e le altre decine di ragazze che non desiderano altro che un’occasione.

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© 2017 – Netflix

GLOW è quella strada fino a quel momento mai considerata, che fa storcere il naso nel momento in cui viene proposta ma che si rivela l’inaspettata possibilità di poter mettere alla prova non solo le proprie capacità interpretative ma anche e soprattutto il proprio corpo. Che non vuol significare solo la scoperta di una forza fisica che non si pensava di possedere, ma la riconquista della propria corporeità. Non un più un veicolo per sfogare le proprie frustrazioni, né un nemico da combattere, né un semplice involucro il cui unico scopo è procreare. Riprendere il controllo in un contesto come quello del wrestling televisivo, in cui la mercificazione del corpo è la parola d’ordine, duplica lo sforzo ma anche il premio di questa sfida.

Questo processo di riappropriazione non può prescindere ovviamente il lato “immateriale”: testa e corpo viaggiano di pari passo e l’uno incide sull’altro, nella creazione di un personaggio che sia al tempo stesso distante e vicino alla vera identità delle protagoniste. In alcuni casi più catartico che in altri (vedi Ruth e Debbie), il costume che queste donne indossano è e non è al tempo stesso una maschera, perché rappresenta lo stereotipo di cui si è vittime nolenti e di cui vogliono liberarsi.

L’altro punto di forza di GLOW è la sodalità, tema che ha già fatto la fortuna di Orange Is The New Black. La preparazione dello show, la convivenza forzata nel residence, l’esigenza di reperire fondi e improvvisarsi truccatrici, sarte, assistenti alla regia, ma in primis la necessità di lavorare insieme sul ring (ripetere le battute, imparare le mosse, allenarsi) è il terreno ideale per il fiorire di un’intesa, di legame che va al di là del palco. Farsi forza insieme contro i pregiudizi del pubblico, le pressioni della famiglia e soprattutto gli ostacoli che le stesse protagoniste si pongono davanti.

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© 2017 – Netflix

Perché, per quanto sia una serie al femminile, il nemico non è rappresentato solo dalla controparte maschile. In particolare, i due uomini che gravitano intorno al microcosmo dello show – Sam Sylvia e il giovane e fintamente disinvolto Sebastian “Bash” Howard – sono in realtà delle figure più positive che negative. Mossi all’inizio da un interesse puramente economico, saranno anche loro travolti dalla forza di queste donne e costretti a riconoscerne un valore che inciderà sulle loro stesse vite.

A chiudere la cornice di una stagione praticamente perfetta, sul ring di GLOW trova spazio, oltre a body, parrucche e glitter, una giusta dose di satira sociale (incentrata ovviamente sull’universo femminile, ma anche sul mondo dello spettacolo) e politica. Sono gli anni della Guerra Fredda, del conflitto a suon di propaganda e minacce tra Stati Uniti e Unione Sovietica, della netta contrapposizione tra l’occidente liberale e l’oriente comunista. Non poteva che essere quindi questo il terreno ideale su cui costruire lo scontro finale, il numero principale dello show: la paladina della libertà a stelle e strisce Liberty Bell contro la terribile bevitrice di vodka Zoya The Destroya.
Ma c’è l’invisibile fantasma con cui il melting pot americano continua tutt’oggi a combattere, che nella serie si indossa un cappuccio bianco e viene letteralmente preso a calci e denudato. 

GLOW è un invito a rimboccarsi le maniche, a non farsi scoraggiare dalle difficoltà, a credere nelle proprie potenzialità. Perché  cantava nel 1985 Howard Jones “things can only get better”. È una strada in salita, piena di fallimenti e ostacoli non previsti. Ma alla vetta c’è una vittoria che ci aspetta. Insieme alla prossima scalata verso un altro sogno luminoso.

Valentina Marino

Scrivo da quando ne ho memoria. Nel mio mondo sono appena tornata dall’Isola, lavoro come copy alla Sterling Cooper Draper Price e stasera ceno a casa dei White. Ho una sorellastra che si chiama Diane Evans.

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