
Georgetown: la verità non importa – Recensione dell’esordio alla regia di Christoph Waltz
Titolo: Georgetown
Genere: giallo
Anno: 2019
Durata: 1h 39m
Regia: Christoph Waltz
Sceneggiatura: David Auburn
Cast principale: Christoph Waltz, Vanessa Redgrave, Annette Bening
Il mai troppo disprezzato gerarca nazista Joseph Goebbels aveva tuttavia capito con feroce arguzia uno dei grimaldelli con cui fin troppo facile scardinare la fiducia delle masse. Soleva, infatti, dire che “se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà”. In fondo, senza arrivare agli estremi distruttivi dei sodali di Hitler, è questa la base del marketing e di fin troppa politica. Non importa se una cosa sia vera o falsa. Quel che conta è fare in modo che la gente ci creda. Lezione appresa anche da Ulrich Mott, il protagonista di Georgetown.

Il fascino di chi sa vendersi
Scritto da David Auburn ispirandosi ad una storia tanto incredibile quanto vera, Georgetown non poteva che essere interpretato da Christoph Waltz. Basta guardare all’elenco dei personaggi cui ha prestato il volto l’attore tedesco per convincersene. Ulrich Mott è, infatti, accomunato al colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria e al dott. Shultz di Django Unchained (per citare solo i più famosi) dallo stesso prorompente fascino. Quel magnetismo che inevitabilmente emanano le persone (buone o cattive che siano) in grado di mostrare una incrollabile fiducia nelle proprie capacità. Così piena e indubitabile che può persino arrivare oltre la loro stessa effettiva esistenza.
A pensarci bene, cosa c’è di ammirevole in un cacciatore di ebrei disposto a tradire con nonchalance la causa a cui ha giurato fedeltà per il proprio tornaconto immediato? Più semplice da apprezzare è chi libera uno schiavo, ma basta questo a dimenticare che dopotutto lo ha fatto solo perché gli tornava comodo come aiutante nel suo lavoro di cacciatore di taglie? Come Landa e Shultz, anche Ulrich è tutt’altro che privo di macchie e imperfezioni. Eppure, come loro, è il centro naturale intorno a cui lo spettatore non può fare a meno di gravitare. Perché occupa il film con il suo continuo mettersi in mostra.
Georgetown è Ulrich Mott. In tutte le sue camaleontiche versioni. Lo stagista troppo in avanti con gli anni che non si arrende all’anonimato e all’insuccesso cogliendo subito le occasioni giuste al momento giusto. Il padrone di casa che tutto controlla e tutto organizza perché i suoi ospiti possano andare via con la sensazione di aver vissuto una serata memorabile. Il diplomatico che vanta contatti con il gotha del mondo che conta arrivando a poter invitare senatori e presidenti e sostituendosi a organismi internazionali. Il generale con stellette e aneddoti da raccontare per giustificare la propria posizione preminente.
Georgetown vive di un personaggio che non poteva che avere la faccia da schiaffi di Christoph Waltz perché nessuno attore più di lui sa costruire personaggi che hanno una unica vera dote. Conoscere alla perfezione l’arte di vendersi.
LEGGI ANCHE: Favolacce: le fiabe di una infanzia di borgata – la recensione del film con Elio Germano


La lezione di Goebbels
Il problema del sapersi vendere è che alle volte non basta. O, meglio, voler eccedere diventa un problema. Perché prudenza popolare vuole che se è una cosa è troppo bella per essere vera, spesso è semplicemente falsa. E che la storia di Ulrich presenti delle crepe ce lo mostra lo stesso Georgetown con spaccati della vita coniugale con Elsa. Giornalista novantenne ben inserita nell’alta società dei salotti e della politica internazionale, Elsa cade nella banale ma sempre efficace trappola dell’ammiratore tanto più giovane di lei da essere coetaneo della figlia. Un idillio creato grazie a gesti e parole sempre galanti e delicate. Ma appunto un idillio pronto a spezzarsi quando non serve più.
La morte di Elsa appare agli occhi della figlia Amanda come l’epilogo già scritto di un matrimonio che mai l’aveva convinta. Ritenere Ulrich responsabile è la scelta più ovvia per lei così come per gli investigatori. Ma non necessariamente per lo spettatore che vede il personaggio mantenere un calma serafica. Ne seguirà una successione di rivelazioni che faranno oscillare la bilancia del giudizio tra innocenza e colpevolezza proprio grazie alle istrioniche trovate di Ulrich. Che svelerà le sue carte nascoste come fossero assi da giocare al momento opportuno per vincere una difficile sfida a poker.
Ma cosa è Ulrich? Un abile stratega o un infido baro? Il gioco di Georgetown è lasciare che sia lo spettatore a dover decidere sulla base dei racconti dello stesso Ulrich. Districandosi tra le sue doti affabulatorie e i rari momenti in cui il velo si solleva e lascia intravedere le storie non dette. La ricerca di un colpevole sposta il film verso il genere giallo, ma è un giallo atipico perché incompleto. Uno solo è il sospettato e il mistero non è cercare l’assassino, ma capire se l’indagine ha preso la strada giusta o sbagliata.
Ricordando, comunque, che quel che troveremo potrebbe non essere la verità, ma solo una menzogna che ci è stata detta così tante volte che ci abbiamo creduto.
LEGGI ANCHE: Les Miserables: la rabbia sotto l’illusione – Recensione del film di Ladj Ly


Un one – man show
Georgetown è (tocca ripetersi) Ulrich Mott, ma soprattutto è Christoph Waltz. Tanto più perché segna l’esordio alla regia del pluripremiato attore che aveva diretto solo un film per la tv venti anni fa. Un debutto costruito su misura così come lo è stato la sceneggiatura. Proprio in questo egocentrismo sta, tuttavia, la pecca principale di un film che finisce per essere monco. Mettersi dietro la macchina da presa significa, infatti, gestire l’intera storia e il suo parterre di personaggi. Dedicando la stessa attenzione a tutti.
Al contrario, Georgetown finisce per appiattirsi sul suo protagonista come se Waltz avesse paura di uscire fuori dalla comfort zone del dover gestire solo sé stesso. Complice di sicuro l’inesperienza del debuttante che si trova a confrontarsi con un cast di veterani che avrebbe richiesto un regista con maggior polso. Risultano, quindi, imperdonabili sprechi le presenze di nomi importanti come Vanessa Redgrave e Annette Bening.
Quanto questo sia da imputare alla regia e quanto alla sceneggiatura è difficile dirlo. Ulrich e l’idolatria di sé stesso riempiono la scena in maniera tanto abbondante da finire per essere ridondante. Dare maggiore spazio a Elsa avrebbe, infatti, permesso di comprendere le ragioni del matrimonio. Allo stesso tempo, il personaggio di Amanda appare talmente poco che la sua diffidenza verso Ulrich appare come il capriccio di una figlia piuttosto che un atteggiamento motivato. Allargare lo sguardo verso questi altri due personaggi avrebbe arricchito anche la figura di Ulrich dandogli la ricchezza che diversi punti di vista offrono.
Georgetown aveva le carte in regola per diventare il racconto avvincente di una storia tanto strana da essere vera. Ma ha preferito essere solo l’ennesima dimostrazione che Christoph Waltz è la scelta migliore per personaggi che sanno come vendere a perfezione sé stessi. Solo che questa cosa la sapevamo già per cu quel che resta è davvero troppo poco.