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Gatta Cenerentola: recensione del film d’animazione made in Napoli

Titolo: Gatta Cenerentola

Genere: Animazione

Anno: 2017

Durata: 86′

Sceneggiatura e Regia: Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone

Cast delle voci: Massimiliano Gallo (Salvatore Lo Giusto), Maria Pia Calzone (Angelica), Alessandro Gassman (Primo Gemito), Mariano Rigillo (Vittorio Basile)

Difficile toppare con il mito di Cenerentola. Numerosissimi gli adattamenti fra quelli riusciti e quelli meno, dall’opera lirica ai cartoni alle serie e tv-movie, il pubblico si affeziona facilmente alla ragazza bistrattata dalle sorellastre e salvata da un principe. Molti ignorano invece che l’origine della leggenda non proviene né da Disney né da Perrault. In una versione abbastanza elaborata la principessina appare senza scarpetta a partire dal 1634 nella raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti del napoletano Giambattista Basile. E’ a questa che gli autori del film si sono ispirati, per solidificare le radici partenopee della loro opera, amputandone però tutte le caratteristiche magiche.

L’ambientazione è il porto di Napoli, su una nave da crociera attraccata alla banchina ha sede un night club che è anche un teatro di cabaret e di concerti jazz, oltre che bordello e molte altre cose. La sua prestigiosa storia è legata all’armatore, morto ammazzato la notte del matrimonio: Vittorio Basile. Che tale personaggio porti il cognome dell’autore della fiaba e un aspetto simile ad un giovane Walt Disney, non credo si tratti di un caso. E’ egli l’artefice del progetto tanto ambizioso quanto futuristico capace, secondo le intenzioni, di portare nuovi posti di lavoro e far risorgere Napoli da un destino di declino e di degrado.

A 15 anni dalla morte di Basile la città invece è coperta da una cappa di cenere, un denso fumo fuoriesce dal Vesuvio, e il mare ha il colore della pece. La nave è quasi un relitto, fantasma di sé stessa, e il progetto fantascientifico è ridotto a un’intermittenza di ologrammi come ectoplasmi del passato. Secondo le atmosfere di Blade Runner.

In un futuro distopico il peggio del presente, e tutta quella letteratura stile Gomorra, ha una sua evoluzione peggiorativa. A comandare la città è un tipetto scarno e con gli occhi bicolore, dal ghigno malvagio e dalla pistola facile. Canta di una città derelitta e il pubblico lo acclama. Si fa chiamare O’ Re e si è arricchito in maniera alquanto equivoca commerciando in scarpe…

Non è difficile ritrovare nell’ossatura del film la buona vecchia sceneggiata napoletana. Essa, Isso e o’ malamente, i cui ruoli sono impartiti rispettivamente alla giovane Mia, figlia dell’armatore morto, a Primo Gemito, ufficiale della Polizia sotto copertura, e a Salvatore Lo Giusto, O’ Re appunto. Non mancano le canzoni, ovviamente, né le sparatorie e le scene melodrammatiche. Tutto secondo le regole.

A fare la differenza la qualità delle musiche, a cura di Antonio Fresi, Luigi Scialdone e con la partecipazione di Enzo Gragnaniello, messe in scena con piani sequenza più degni di un festival della canzone che di un film a cartoni animati. E poi la notevole tecnica dei disegni, con un segno molto incisivo soprattutto per gli sfondi, le luci e gli effetti 3d. Ricreare così paesaggi surreali dà un senso pieno alla scelta di farne un film d’animazione.

I personaggi sembrano muoversi un po’ ricalcati sui movimenti degli attori-modelli, come la vecchia tecnica del rotoscope, già utilizzata dagli albori dell’animazione e affinata da Ralph Bakshi nelle sue opere su Il Signore degli Anelli e Fire and Ice. E’ un genere di tecnica che non mi fa impazzire, ma serve allo scopo.

Non è di certo un confronto con l’illustre precedente disneyano che si va cercando – sebbene qua e là pare affiorare qualche riferimento che suona più come un omaggio – anche perché il target a cui è rivolto il film è di tutt’altro genere.

L’eroina questa volta non è bionda, non canta e si macchia di omicidio (così come avviene nella fiaba di Basile). Il suo nome è Mia, chiamata Gatta Cenerentola dalla perfida matrigna e dalle sei sorellastre (fra loro anche un femminiello). Muta per il trauma subito alla vista della morte del padre, salva il suo principe dalla furia delle sorelle metà zoccole e metà assassine. E diventa preda del Re che a mezzanotte la vorrebbe sposare, preferendola alla matrigna cui aveva promesso il suo cuore. La prova d’amore, che in realtà è l’interesse di ereditare la nave con tutte le sue ricchezze nascoste e svelate, sono delle scarpette di vetro…

La difficoltà a farmi piacere quest’opera, che su carta aveva caratteristiche molto interessanti e innovative, sono stati una certa prolissità nei dialoghi, un virtuosismo barocco nell’utilizzo dei movimenti di camera, una certa piattezza dei personaggi e nessuno di questi dotato di particolare simpatia. Siamo dalle parti di Ghost in the Shell e altri anime giapponesi, ispirandosi più alla forma che ai contenuti. Un film esteticamente piacevole ma con poca anima.

Stefano Scarpa

Digital designer e autore. Ha pubblicato il giallo "Il cimitero" con Porto Seguro Editore nel 2020. All'attivo altri romanzi editi su Lulu.com. Nato a Trieste nel 1968 vive a Roma dove si è laureato in Lettere a La Sapienza nel 1995 e sposato nel 2018.

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