
Game of Thrones recensione 8×06 – The Iron Throne: la fine di ciò che vivrà per sempre
E, quindi, è finita. Bisognerebbe essere come Manzoni e celebrare con marmorea monumentalità ciò che ha segnato una svolta nella storia iniziando con due sole indimenticabili parole: ei fu. Ma non abbiamo quell’arte. E, forse, sarebbe eccessiva perché non si commemorano le serie tv, ma le persone. E questa è la recensione dell’episodio 8×06 di Game of Thrones. Eppure.
Eppure, Game of Thrones è stata per la tv ciò che Napoleone fu per la storia. Un qualcosa che non c’era mai stato e non ci sarà mai più. Un unicum che definisce un’epoca. Perché la storia della serialità televisiva si dividerà in un prima di Game of Thrones e un dopo Game of Thrones.
E, quindi, il 19 Maggio 2019 sarà meno universale, ma non meno importante per il suo mondo di quel 5 Maggio che le parole del poeta hanno immortalato.

Il finale che non si può giudicare
Non si può davvero recensire un series – finale. Di qualunque serie, in generale, e di Game of Thrones soprattutto. Perché ogni critica per quanto motivata sarebbe superflua quando ormai non si può più né tornare indietro per correggersi né andare avanti per emendarsi. Ogni delusione insanabile dato che non ci saranno altri futuri possibili, ma solo un libro chiuso senza pagine bianche su cu scrivere con l’inchiostro dei desideri. Ogni speranza irrealizzabile perché il tempo dell’attesa non esiste più.
Se The Iron Throne non fosse la fine di tutto, ci si potrebbe lamentare della mancanza di pathos che ha privato questo episodio di quell’epicità che ci si sarebbe attesi dalla conclusione di una storia così lunga. È ben poca consolazione osservare come questa sia dopotutto una caratteristica di Game of Thrones che ha quasi sempre lasciato al pre season – finale il climax degli eventi per dedicare il capitolo conclusivo di ogni stagione a gettare i semi del futuro. Solo che qui non ci sarà il futuro. Quel che accade sembra guidato dalla fretta di chiudere le storie ancora aperte dando ad ogni personaggio ancora in vita una conclusione quale che sia purché non restino domande senza risposta da parte degli spettatori.
Era stato promesso un finale agrodolce. Ma, in realtà, assomiglia più ad un happy ending frettoloso pagato con la morte di che era stato designato a vittima sacrificale. Poco importa chiedersi il senso di certe scelte. Perché su quel trono ormai virtuale sia andato a sedersi, infine, chi ha fatto meno di tutti per meritarlo. Chi abbia deciso che a scegliere fossero proprio quelle persone, alcune delle quali ricomparse dal nulla o senza aver mai preso parte agli eventi. Come i contendenti possano accettare una pace improvvisata sul momento da chi non avrebbe dovuto neanche avere diritto di parola. Quanto meritate siano le posizioni che ognuno guadagna alla fine.
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Game of Thrones doveva finire. Quale che fosse stato il finale, allo stesso volume sarebbe arrivato il coro degli insoddisfatti. E, allora, non resta che accettare quel che gli sceneggiatori hanno scelto. A loro giustamente criticabile, ma sempre insindacabile giudizio.

La colpa e il perdono
Game of Thrones dice addio con un episodio che è paradossalmente degno di questa ultima stagione nel suo riprenderne tutti quei difetti che hanno portato addirittura all’idiozia di una petizione per rigirarla ex novo. Come se fosse possibile accontentare tutti. O come se fosse obbligatorio farlo. O come se, addirittura, la creatività degli autori di una serie non fosse una mente libera, ma una creatura schiava di mille mila padroni.
È nel pieno diritto degli spettatori lamentarsi di certe decisioni dei personaggi che sono sembrate a tratti dettate da un rinnegare la propria filosofia o un tornare indietro dopo faticosi passi in avanti. Ci si può anche innervosire per l’impoverirsi dei dialoghi e la stupidità palesata da chi doveva perdere e si è comportato nel modo peggiore anche a costo di smentire le note fondanti del carattere che abbiamo apprezzato nelle sette stagioni precedenti. E non si allontana molto dal vero la vignetta circolata in rete che paragona l’evolvere della sceneggiatura di Game of Thronesin queste stagioni al disegno di un cavallo fatto sempre peggio.
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Ma quella critica impietosa dimentica quel che Stephen King aveva sottolineato in suo tweet prima della Battaglia di Winterfell. Tutti i personaggi si sono ritrovati, infine, dove dovevano essere. Ed accompagnare ognuno verso il suo epilogo era un’impresa tremendamente complessa visto il numero inusualmente alto. Senza dimenticare che Benioff e Weiss si sono trovati a dover gestire quello che doveva essere un adattamento di una saga per poi scoprire che l’autore dei romanzi non aveva di fatto alcuna intenzione di completarla. Quel “you were where you were supposed to be”detto da Bran a Jon in questo series – finale è allora un messaggio per gli spettatori. Un’assoluzione, certo, che è impossibile stabilire se concessasi da soli o basata sulle idee che Martin si dice avesse loro comunicato sul destino dei vari personaggi.
Ma un perdono che, dopotutto, si sono guadagnati regalandoci episodi che hanno raggiunto impareggiabili livelli di eccellenza in termini di regia e fotografia.

Quel che è stato
Anche perché, contrariamente a quanto un motto popolare partenopeo insegna con intenti pacificatori, con Game of Thrones non è possibile dire “scordiamoci il passato”. Anzi, è proprio ricordare quel passato che non può che sospendere ogni giudizio su questo series – finale o su questa intera ottava stagione. Ed è per questo che il voto in fondo a questa recensione non può che essere il premio meritato a quel che Game of Thrones è stato.
Una serie iniziata quasi come una scommessa azzardata. Scrivere un fantasy che puntasse tutto sugli elementi meno fantasy. Perché ci sono stati i draghi prima, i White Walkers poi, la mitologia del ghiaccio e del fuoco. Ma, soprattutto all’inizio, il focus della serie era quello che il suo titolo annunciava: il gioco dei troni. Un fantasy dove ciò che contava erano gli intrighi e l’intelligenza dei giocatori piuttosto che la valentia in duello e l’onesta adamantina degli eroi. Dove ciò a cui più si prestava attenzione non era la magnificenza dell’irreale, ma la sporcizia del reale. Una serie a cui interessava disegnare personaggi e farli evolvere piuttosto che inscenare leggende e mostrarne la fine.
Game of Thrones ha rappresentato un momento di rottura. L’attimo in cui si è capito che si poteva scrivere una serie anche uccidendone il protagonista principale sbattendo la porta in faccia ad ogni legge non scritta ma sempre rispettata in precedenza. La dimostrazione che i concetti stessi di protagonista e antagonista erano ormai vecchi perché tutti possono avere le proprie ragioni e i propri torti e scegliere con chi schierarsi è un rischio che deve prendersi lo spettatore. Sapendo che anche chi sta per ascendere alla gloria può imprevedibilmente precipitare nella cenere.
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Una serie che non ha avuto paura di mandare in prima serata scene esplicite di sesso e incesto e stupro, ma anche sangue e omicidi di donne gravide e roghi di bambine innocenti. Come ha avuto il coraggio di riscrivere completamente il ruolo delle donne nei fantasy strappando le pagine in cui erano solo principesse in attesa di salvezza e facendone invece giocatrici e regine e assassine. Senza più alcuna distinzione tra i sessi infrangendo le barriere che la serialità televisiva aveva eretto riflettendo i pregiudizi di una società in cui sono ancora troppi quelli che ci credono.
Game of Thrones è finito. Ma Game of Thrones non smetterà mai di vivere.