
Game of thrones: Recensione dell’episodio 3.08 – Second sons
La vita e il suo valore. Ecco come può essere definito il filo conduttore di Second sons, ottavo capitolo di questa controversa terza stagione che sembra rispondere a quel Valar Morghulis con cui si chiuse – e in modo assolutamente funzionale – la passata stagione delle Cronache. Perché se è vero che tutti gli uomini devono morire (e George Martin ce lo ha dimostrato in diverse occasioni fino a questo momento), è altrettanto vero che i personaggi adesso si muovono tutti verso l’autoconservazione, ognuno a suo modo, ognuno con il proprio prezzo da pagare.
”Fuck Joffrey. Fuck the Queen.”
Arya and the Hound.
Già. Come dimenticare il memorandum di Arya, quell’elenco atono di nomi appartenenti a persone da massacrare una dopo l’altra per vendicare la testa di suo padre? Eppure eccoli qui, a cavallo insieme, lei e il Mastino. Perché Game of Thrones è anche (e forse soprattutto) questo, dinamiche relazionali che vengono stravolte laddove la morte pende sulle teste come una spada affilata pronta a calarsi inesorabile, cieca, equa nella sua terribile casualità. The Hound è a mio parere uno fra i personaggi meglio caratterizzati da Benioff e Weiss, non solo perché (come nel caso di molti altri) il confine tra bene e male è sempre assai sottile in lui, ma anche perché non è mai troppo chiara la ragione per cui – in un oceano di ferocia assassina – decida d’improvviso di salvare vite, ricordando di essere vittima a sua volta di un’infanzia sin troppo spietata. Brienne e Jaime, insomma, cedono il passo a un altro sipario interessante, una nuova diade sicuramente feconda a livello psico – narrativo.
”Will you fight for me?”
”I fight for Beauty.”
Daenerys Targaryen nel frattempo prosegue nella sua epica impresa per il dominio dei Sette Regni. È piuttosto interessante il modo
The silence of the Lambs
King’s Landing
Il minutaggio dedicato ad Approdo del Re, è quello che solitamente domina in un episodio di GOT siffatto (dove, diciamocela tutta,
”If you ever call me sister again, I’ll have you strangled in your sleep.”
Eh sì. L’ambizione inizia a cedere il passo al terrore anche quando si tratta di una che di cognome fa Tyrell, la famiglia più ambiziosa dei Sette Regni (dopo i Lannister, chiaramente). Ovviamente, Cersei non poteva non annusare la sete di potere e non la manda di certo a dire alla futura nuora che si prende l’ardire di chiamarla ”sorella”. Grave, gravissimo errore, cara Marjorie (e no, non mi soffermerò sul confuso e beautifulliano albero genealogico delineato da Lady Olenna). Con un sorriso, mi sono ricordato del ruolo con cui ho conosciuto Natalie Dormer: Anne Boleyn in ”The Tudors”. Corsi e ricorsi, insomma.
And suddenly… it’s Fantasy!
Devo proprio ammetterlo, quando guardo un episodio di GOT, specie di recente (devo proprio tornare sul tasto dolente della terza stagione), il mio cervello invia automaticamente l’impulso di uno sbadiglio al minimo accenno di un fotogramma in cui si scorge del ghiaccio. Inutile dilungarmi sulla questione, perché credo sappiate tutti di cosa sto parlando. Quando poi mancano pochi minuti alla fine della puntata e c’è tutto un dialogo fra Samwell e Gilly sul nome da dare al figlio di Craster, capirete che lo sbadiglio si trasforma in imprecazione (per dirla con un eufemismo). Poi però… The White Walker. Il coraggio di Sam. Una sequenza magnifica che riscatta l’immobilità di un intero episodio. Un CGI che si fa perdonare l’orso della settimana scorsa, che manco Once upon a time.
Che dire. Finally, the Magic.
Second sons in definitiva non vira significativamente nella rotta di questa terza stagione, troppo immobile e di passaggio rispetto alle altre. Influenzata dall’adattamento della prima metà di ”A storm of Swords”, Got III ha avuto il gravoso compito di trasporre eventi meramente preparatori a tutto quello che ancora deve avvenire, e se da una parte ciò è assolutamente funzionale a una narrazione il più possibile coerente (per quanto scarna rispetto all’immensità dell’opera letteraria), d’altro canto tale scelta non collima né con il numero di episodi (troppo esiguo), né con una logica seriale che chiede ad ogni stagione di possedere un suo arco narrativo definito e compiuto. Oltretutto, la frustrazione aumenta al pensiero che mancano soltanto due episodi a quell’estenuante attesa che ci accompagna da tre anni a questa parte. Merito di questo episodio è di certo quello di ridurre significativamente i nuclei narrativi (cinque, contando la scena finale di Samwell), che non si affollano ma s’incastrano perfettamente distribuendosi in modo equo nella narrazione (fatta naturalmente eccezione per la parte dedicata a King’s Landing, sempre più ampia rispetto alle altre).
Termino la recensione con l’augurio che i prossimi centoventi minuti siano in grado di sorprenderci come solo Samwell Tarly è stato qui in grado di fare, con la speranza che anche questa terza stagione possa quindi essere, a suo modo, unica e indimenticabile. Finora, tanta bellezza ma nessun fremito particolare.
Tre stelle all’episodio, quattro stelline-michelin a Sam. Well done, Tarly.