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Fargo: Recensione dell’episodio 2.09 – The Castle

Lo aspettavamo alla fine della narrazione, lo aspettavamo da tanto tempo, quel percorso che avrebbe portato Fargo a Sioux Falls, ma ce lo troviamo lì, all’improvviso, in tutta la sua storica pienezza, con tale portata che addirittura la narrazione cambia e si dà larga strada a quel finto anni 70, in cui entrano prepotentemente la voce narrante fuori campo (che tra l’altro è il ritorno di Martin Freeman a Fargo) e un orgia di split screen, continui, accecanti, come è stordente la bellissima musica di sottofondo, le atmosfere sono dense, le frasi hanno l’aura dell’epicità, i momenti sono intensi.

FARGO -- ÒThe CastleÓ -- Episode 209 (Airs Monday, December 7, 10:00 pm e/p) Pictured: (l-r) Keir O'Donnell as Ben Schmidt, Ted Danson as Hank Larsson, Patrick Wilson as Lou Solverson, Terry Kinney as Chief Gibson, Elizabeth Bowen as Trooper Sue Lutz, Wayne Duvall as Captain Jeb Cheney. CR: Chris Large/FX

Sembra quasi di assistere ad un episodio scritto dai Coen e girato da Tarantino (in realtà è girato dal bravissimo Adam Arkin) tanto il senso di sfida all’Ok Corral invade tutta la narrazione, tanto il pulp si unisce a quel senso di momento mistico e irripetibile, con la presenza in scena dei personaggi più improbabili, sia che si parli dei poliziotti ottusi, sia che siano i sempre più improbabili coniugi Blumquist, sia che si guardi dal lato di cattivi che sono sanguinari ma al tempo stesso tragicamente inadatti a quello che fanno e visibilmente finiti nel posto sbagliato al momento sbagliato, non a Sioux Falls, ma nella loro vita in generale.

E questo è un altro tassello che si aggiunge al mosaico e mi spiego meglio. Io spesso mi trovo a parlare, anche in queste recensioni, delle tematiche della poetica dei Coen e uno dei tratti salienti che sono emersi in queste due stagioni di Fargo e di cui ho già parlato nella recensione del terzo episodio, ad esempio, è l’importanza del caso nella determinazione di una storia. fargo 209aQui, in questo nono episodio, si esplicita un altro fatto importante, che abbiamo potuto vedere in molta della produzione dei Coen, e in modo importante recentemente in, ad esempio, A Serious Man, che è il fatto di essere assolutamente inadatti a quello che si sta facendo o a quello che ci si trova costretti a fare e il navigare a vista.

In questo episodio, a parte forse Lou Solverson, sono tutti inadatti al ruolo che stanno ricoprendo, c’è un incapacità totale che rende l’epicità dello scontro tragica e comica allo stesso tempo, non certo perché si rida, ma per la consapevolezza del destino segnato dall’incapacità umana. Un sorriso amaro in una valle di lacrime, come avrebbe detto Walter.

fargo 209dE il tutto poi viene spezzato da un Deus ex machina talmente inverosimile, quanto atteso, visti tutti gli indizi disseminati in questa stagione, un evento che lascia straniti tanto i protagonisti, tranne ovviamente Peggy, che è già stranita di suo, quanto gli spettatori, fermi tutti a guardare questa assurda ma bellissima luce verde ondeggiante, che nel non fare nulla permette alla situazione di ribaltarsi e di avere un esito che ci aspettavamo ma non avevamo visto arrivare.

Oltre all’inadattezza e al caso, ancora un altro elemento viene infilato in questo episodio: l’ottusità dell’essere umano. Tutti cadono in un tranello, anche chi lo prepara, a sua volta, per un motivo o per l’altro rimane invischiato in questo perpetrarsi ritmico di conseguenze nefaste che si susseguono l’una all’altra come i peggiori esempi di causa ed effetto.

Ne rimane sempre fuori Lou, lui è il più adatto, lui è il meno ottuso, lui è quello che rimane vivo, anche se il destino lo continua a tenere lontano da quel telefono che lo avrebbe portato lontano da Sioux Falls e verso un altro dolore che lo aspetta a casa e che lui non conosce, ma che a noi, spettatori della prima stagione di Fargo era tristemente noto. fargo 209cLou cerca di essere uno che tira i fili, come Hanzee cerca di tirare i fili delle persone e così come il Capitano della polizia cerca di fare, ma nessuno è padrone del proprio destino, se alla fine è una stupida luce verde a determinare chi vive e chi muore, così come è una stupida casualità statistica che determina chi assume il farmaco sperimentale e chi invece il placebo.

Questo episodio è anche una gioia per gli occhi e per le orecchie, per la sempre meravigliosa colonna sonora, per l’assoluta libertà creativa che questo show ha, per le soluzioni stilistiche di cui parlavamo in apertura e per alcune chicche di altissimo livello come lo stop frame inserito nelle scene di massima tensione, che era in parte stato anticipato dai congelamenti precedenti e dal voiceover, ma che acquista tutta un altro spessore nella scena nel quale il climax è massimo.

E ora che l’apogeo del racconto è stato raggiunto ci aspetta forse un finale anticlimatico o le menti geniali che stanno alle spalle di questa serie sapranno ancora regalarci un nuovo spettacolo? Non tutto è stato concluso, non tutto è stato spiegato ma, come Fargo ci insegna, non sempre una spiegazione razionale è necessaria, quando il caso è il Signore assoluto.

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1 commento

  1. Ecco l’episodio che entrerà di diritto nei manuali di storia del cinema e della televisione. Regia, sceneggiatura, effetti speciali, fotografia, montaggio, voce narrante (bentornato Martin Freeman!), tutto in questa puntata puzza di capolavoro. Ma il momento clou è lo scambio di battute tra i coniugi maldestri.
    “Are you seein’ this?” ” It’s just a flyin’ saucer, Ed. We gotta go.”
    Difronte ad un evento straordinario come la visione ravvicinata di un ufo Peggy rimane impassibile ed imperturbata, come Ed Crane in quel gioiellino noir che è “L’uomo che non c’era”.
    Noah Hawley & co. hanno fatto un lavoro straordinario di rimandi e reinterpretazioni dell’universo coeniano senza cadere mai nel banale citazionismo e questo episodio ne è l’esempio perfetto. Pura gioia per gli occhi e le orecchie.

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