
Fargo: Recensione dell’episodio 2.09 – The Castle
Lo aspettavamo alla fine della narrazione, lo aspettavamo da tanto tempo, quel percorso che avrebbe portato Fargo a Sioux Falls, ma ce lo troviamo lì, all’improvviso, in tutta la sua storica pienezza, con tale portata che addirittura la narrazione cambia e si dà larga strada a quel finto anni 70, in cui entrano prepotentemente la voce narrante fuori campo (che tra l’altro è il ritorno di Martin Freeman a Fargo) e un orgia di split screen, continui, accecanti, come è stordente la bellissima musica di sottofondo, le atmosfere sono dense, le frasi hanno l’aura dell’epicità, i momenti sono intensi.
Sembra quasi di assistere ad un episodio scritto dai Coen e girato da Tarantino (in realtà è girato dal bravissimo Adam Arkin) tanto il senso di sfida all’Ok Corral invade tutta la narrazione, tanto il pulp si unisce a quel senso di momento mistico e irripetibile, con la presenza in scena dei personaggi più improbabili, sia che si parli dei poliziotti ottusi, sia che siano i sempre più improbabili coniugi Blumquist, sia che si guardi dal lato di cattivi che sono sanguinari ma al tempo stesso tragicamente inadatti a quello che fanno e visibilmente finiti nel posto sbagliato al momento sbagliato, non a Sioux Falls, ma nella loro vita in generale.
E questo è un altro tassello che si aggiunge al mosaico e mi spiego meglio. Io spesso mi trovo a parlare, anche in queste recensioni, delle tematiche della poetica dei Coen e uno dei tratti salienti che sono emersi in queste due stagioni di Fargo e di cui ho già parlato nella recensione del terzo episodio, ad esempio, è l’importanza del caso nella determinazione di una storia. Qui, in questo nono episodio, si esplicita un altro fatto importante, che abbiamo potuto vedere in molta della produzione dei Coen, e in modo importante recentemente in, ad esempio, A Serious Man, che è il fatto di essere assolutamente inadatti a quello che si sta facendo o a quello che ci si trova costretti a fare e il navigare a vista.
In questo episodio, a parte forse Lou Solverson, sono tutti inadatti al ruolo che stanno ricoprendo, c’è un incapacità totale che rende l’epicità dello scontro tragica e comica allo stesso tempo, non certo perché si rida, ma per la consapevolezza del destino segnato dall’incapacità umana. Un sorriso amaro in una valle di lacrime, come avrebbe detto Walter.
E il tutto poi viene spezzato da un Deus ex machina talmente inverosimile, quanto atteso, visti tutti gli indizi disseminati in questa stagione, un evento che lascia straniti tanto i protagonisti, tranne ovviamente Peggy, che è già stranita di suo, quanto gli spettatori, fermi tutti a guardare questa assurda ma bellissima luce verde ondeggiante, che nel non fare nulla permette alla situazione di ribaltarsi e di avere un esito che ci aspettavamo ma non avevamo visto arrivare.
Oltre all’inadattezza e al caso, ancora un altro elemento viene infilato in questo episodio: l’ottusità dell’essere umano. Tutti cadono in un tranello, anche chi lo prepara, a sua volta, per un motivo o per l’altro rimane invischiato in questo perpetrarsi ritmico di conseguenze nefaste che si susseguono l’una all’altra come i peggiori esempi di causa ed effetto.
Ne rimane sempre fuori Lou, lui è il più adatto, lui è il meno ottuso, lui è quello che rimane vivo, anche se il destino lo continua a tenere lontano da quel telefono che lo avrebbe portato lontano da Sioux Falls e verso un altro dolore che lo aspetta a casa e che lui non conosce, ma che a noi, spettatori della prima stagione di Fargo era tristemente noto. Lou cerca di essere uno che tira i fili, come Hanzee cerca di tirare i fili delle persone e così come il Capitano della polizia cerca di fare, ma nessuno è padrone del proprio destino, se alla fine è una stupida luce verde a determinare chi vive e chi muore, così come è una stupida casualità statistica che determina chi assume il farmaco sperimentale e chi invece il placebo.
Questo episodio è anche una gioia per gli occhi e per le orecchie, per la sempre meravigliosa colonna sonora, per l’assoluta libertà creativa che questo show ha, per le soluzioni stilistiche di cui parlavamo in apertura e per alcune chicche di altissimo livello come lo stop frame inserito nelle scene di massima tensione, che era in parte stato anticipato dai congelamenti precedenti e dal voiceover, ma che acquista tutta un altro spessore nella scena nel quale il climax è massimo.
E ora che l’apogeo del racconto è stato raggiunto ci aspetta forse un finale anticlimatico o le menti geniali che stanno alle spalle di questa serie sapranno ancora regalarci un nuovo spettacolo? Non tutto è stato concluso, non tutto è stato spiegato ma, come Fargo ci insegna, non sempre una spiegazione razionale è necessaria, quando il caso è il Signore assoluto.
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Visitor Rating: 5 Stars
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Ecco l’episodio che entrerà di diritto nei manuali di storia del cinema e della televisione. Regia, sceneggiatura, effetti speciali, fotografia, montaggio, voce narrante (bentornato Martin Freeman!), tutto in questa puntata puzza di capolavoro. Ma il momento clou è lo scambio di battute tra i coniugi maldestri.
“Are you seein’ this?” ” It’s just a flyin’ saucer, Ed. We gotta go.”
Difronte ad un evento straordinario come la visione ravvicinata di un ufo Peggy rimane impassibile ed imperturbata, come Ed Crane in quel gioiellino noir che è “L’uomo che non c’era”.
Noah Hawley & co. hanno fatto un lavoro straordinario di rimandi e reinterpretazioni dell’universo coeniano senza cadere mai nel banale citazionismo e questo episodio ne è l’esempio perfetto. Pura gioia per gli occhi e le orecchie.
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