
Fargo: Recensione dell’episodio 2.03 – The Myth of Sisyphus
C’è una superstrada che connette Fargo a Kansas City, la superstrada 29 che passa per Sioux Falls. Con una piccola deviazione sul percorso, magari per mangiarsi una buona fetta di torta fatta in casa, si arriva a Luverne. Ma bisogna andarci, non ci passi. Perché questo incipit? Perché in questa nuova stagione di Fargo, show prodotto e che rende omaggio alle tematiche dei Coen, ritorna prepotente quello che è il concetto basilare da cui parte tutto nelle tematiche coeniane: il caso.
Il caso è quella cosa che tesse tutte le trame dei racconti dei fratelli di Minneapolis, perché le persone si trovano spesso ad essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, catapultate sempre in qualcosa più grande di loro che le assorbe. E se capita un po’ a tutti in questa storia, l’emblema del trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato è riservato esemplarmente a Peggy Blomquist, interpretata da una meravigliosa Kirsten Dunst, che dal momento in cui investe il giovane mafioso di Fargo, per risolvere il problema, inanella, come il miglior Lester Nygaard nella prima stagione, una decisione più sbagliata dell’altra, una scelta che segue una scelta e che portano la storia sempre più verso un buco nero.
E Peggy e Lester hanno molte cose in comune, sono simili come personaggi: una vita modesta, nessuna aspirazione, la casualità che li porta ad essere proiettati in qualcosa di impensabile, la paura, soprattutto quella, e l’egoismo che li portano a scendere i gradini del baratro cercando di salvare se stessi, costi quel che costi e trovandosi alla fine in una situazione ormai ingestibile per le proprie capacità. Peggy, al momento è ancora all’inizio della strada percorsa da Lester lo scorso anno, ma la china è la stessa.
Se la paura e il tremore colgono Peggy e un po’ meno il suo non certo brillantissimo marito, chi non sembra provarne è il giovane Lou Solverson,
Insomma, questa stagione di Fargo, oltre ad essere ambientata alla fine degli anni 70, vuole essere, in stile coeniano, anche una citazione e celebrazione dei generi del decennio, dal western al poliziesco, fino al gangster movie in cui entriamo maggiormente quando la narrazione si sposta sui Gerhardt e sulla mafia di Kansas City, con personaggi che sono sempre e chiaramente sopra le righe come Mike Milligan o Dodd Gerhardt.
Il ritmo è quello della scorsa stagione che aveva fatto storcere il naso ad alcuni ma che credo sia impossibile da cambiare se si vuole espandere una narrazione coeniana su un arco da serie tv anziché concentrarla nel tempo cinematografico, proprio perché questa dilatazione concede alla storia la possibilità di perdersi in slanci filosofici o nella poetica del racconto per immagini oltre a quello a cui normalmente siamo abituati.
Siamo quasi a metà stagione e se alcune parti di trama vanno piano piano a convergere, altre restano maggiormente parallele, anche se tutte incendiate da quella casuale fiammella iniziale e la fattura tecnica del prodotto e l’attenzione ai dettagli per ora ne valgono la visione. Il fatto che, in parte, sappiamo già dove tutto andrà a finire non sminuisce l’interesse e l’attenzione sulla trama che si mantiene costantemente sul filo di esplodere, anzi, forse si diverte a tenere noi su quel filo.
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