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Elvis: la storia del re prigioniero – la recensione del film di Baz Luhrmann con Austin Butler e Tom Hanks

Titolo: Elvis
Genere: biografico
Anno: 2022
Durata: 2h 40m
Regia: Baz Luhrmann
Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Sam Bromell, Craig Pearce, Jeremy Doner
Cast principale: Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Dacre Montgomery

C’è una frase di Keith Richards che si adatta bene a quanto chi è pratico della filmografia di Baz Luhrmann si aspettava dal suo Elvis. Riferendosi al re del rock, il chitarrista dei Rolling Stones diceva: “prima di Elvis, il mondo era in bianco e nero; poi è arrivato ed ecco un grandioso technicolor”. Quale personaggio si poteva coniugare meglio, quindi, con la passione dell’eccentrico regista australiano che adora le messe in scena iper colorate e luccicanti? E, infatti, il matrimonio cinematografico tra la storia di Elvis Presley e la passione di Baz Luhrmann funziona anche meglio del previsto. Ma non per i motivi che ci si attendeva. Ed è un bene che sia così.

Elvis: la recensione - Credits: Warner Bros
Elvis: la recensione – Credits: Warner Bros

Il re schiavo dei suoi sudditi

Baz Luhrmann non ha diretto molti film, ma sono tutti immediatamente riconoscibili. Due titoli sono esemplari per comprendere la caratteristica dominante del suo modo di approcciarsi al cinema: Romeo + Juliet e Moulin Rouge. Due opere molto differenti come tematiche e genere, ma accomunate dalla precisa volontà del regista di mettersi al di sopra della storia. Che Shakespeare abbia ambientato la travagliata vicenda di Romeo e Giulietta in una immaginaria Verona trecentesca non impedisce al regista di metterla in scena ai giorni nostri tra scontri a fuoco e luci al neon.

Allo stesso modo, nella Parigi del 1899 di Moulin Rouge si balla al ritmo di mash up di canzoni di ieri e di oggi. Se questa forte e dominante impronta personale sia un bene o un male, sta al gusto dello spettatore deciderlo.

È sicuramente, comunque, un indizio che porterebbe a pensare che altrettanto avrebbe fatto Luhrmann con la storia di Elvis. Soprattutto sapendo che molte cover di canzoni del re del rock sono state chieste a diversi artisti attuali. Accade, invece, il contrario.

Luhrmann si mette al servizio di Elvis Presley. Il film lascia libera la rutilante frenesia visiva del regista di scatenarsi quando l’azione si svolge su quel palco che era la vera casa di Elvis. Ma il ritmo si fa lento e compassato quando a dominare la scena è il ritratto intimo dell’umanità complessa di un ragazzo che diventa schiavo della sua volontà di essere amato.

L’Elvis che Luhrmann porta sullo schermo è inizialmente solo un ragazzo bianco cresciuto con la passione per la musica sbagliata. Un giovanotto come tanti destinato ad una banale vita da operaio che ama passare il tempo nei locali dove impera il rhythm and blues invece che il country. Soprattutto, è un figlio devoto che anela al successo non tanto per sé quanto piuttosto per allontanare una madre adorata e protettiva e un padre con poco lavoro e ancor meno capacità da una miseria che ancora non c’è, ma potrebbe cader loro addosso da un momento all’altro. Quel successo insperato arriva ed è più grande di quanto egli stesso avrebbe mai immaginato.

Perché, senza averlo programmato, Elvis diventa tutto ciò che l’America voleva senza aver il coraggio di chiederlo. Il bianco che canta le canzoni dei neri. Il bel ragazzo che ancheggia sul palco permettendo al pubblico femminile di lasciarsi andare a desideri inconfessabili. Il ribelle che se ne infischia delle critiche di quei politici conservatori felici di avere un bersaglio da additare. La star capace di fare il tutto esaurito ad ogni spettacolo piacendo in maniera unanime in un paese che ancora praticava la segregazione razziale. Il frutto proibito finalmente a disposizione di tutti.

Soprattutto, l’America aveva trovato non solo la persona di cui innamorarsi, ma colui che questo amore desiderava e ricambiava. Perché la vera passione di Elvis era quella di piacere al suo pubblico. Accettando di indossare la divisa militare per due anni se è questo che i suoi fan volevano. Sposando la brava ragazza con cui mettere su una famiglia felice quando questo era il ritratto richiesto. Recitando in dozzine di film di dubbio valore solo perché il suo fascino era quello che il pubblico chiedeva ad Hollywood di portare sul grande schermo.

Se fosse questo ciò che Elvis voleva, non era importante per l’America. Ma soprattutto non era importante per lui stesso. Era il Re del Rock. Ma un re che aveva accettato di essere schiavo dei suoi sudditi.

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Elvis: la recensione - Credits: Warner Bros
Elvis: la recensione – Credits: Warner Bros

Il re incatenato dal suo carceriere

Se i mille volti del pubblico erano le sbarre che chiudevano Elvis in una prigione dorata, il colonnello Tom Parker era il carceriere che di quella prigione teneva ben salde le chiavi. Un uomo che adorava vantare le sue doti di imbonitore. Un manager che, dopo lungo travagliare, aveva finalmente trovato la proverbiale gallina dalle uova d’oro. E di quella gallina non voleva perdersi non solo le uova, ma anche ognuna delle penne. Perché tutto poteva essere venduto di Elvis e tutto doveva essere trasformato in una fonte di guadagno. Persino l’odio di chi non aveva accettato che l’America avesse trovato il suo re a lungo desiderato.

Il misterioso colonnello Parker, che in verità né era mai stato colonnello né si chiamava Tom Parker, si ritrovò ad essere la persona che più capiva Elvis. Che prima e meglio di chiunque altro si rese conto che quel ragazzo aveva un vuoto dentro che solo l’amore del pubblico poteva colmare. L’unico che si accorse quanto il leone che dal palco dominava le folle fosse un cucciolo bisognoso delle coccole di ognuno dei membri di quella massa informe che gremiva i suoi concerti. Parker lo capì e decise di sfruttarlo a suo vantaggio. Vide una persona che rischiava di annegare nella sua spasmodica ricerca della prossima onda da cavalcare e decise di offrirgli la promessa di un salvagente che non gli lanciò mai.

Al contrario, Parker fece sempre molta attenzione a che nessuno potesse mai soccorrerlo. Sostituendosi alla famiglia nella gestione della fabbrica di denaro che era Elvis. Provando a castrare ogni suo tentativo di diventare altro da quel che il suo manager aveva deciso per lui. Sfruttando le uniche decisioni autonome di Elvis come frittate da rigirare con sapiente maestria. Affondando ogni scialuppa che provasse ad avvicinarsi a quel naufrago che solo lui doveva tenere a galla per rubarne la gratitudine.

Ancora una volta, Elvis finì per essere una contraddizione. Era un re, ma privo di ogni libertà perché incatenato al volere del suo carceriere.

Elvis: la recensione - Credits: Warner Bros
Elvis: la recensione – Credits: Warner Bros

Il re imprigionato nel suo mito

Il legame tossico tra Elvis e il colonnello Parker è stato discusso, analizzato, sviscerato, criticato da sempre. A questa lista si aggiunge anche il film di Baz Luhrmann che sceglie una prospettiva però nettamente diversa. A raccontare la storia è, infatti, il colonnello stesso. L’uomo che fu prima il più invidiato e poi il più odiato dai fan del re che veniva da Memphis. Che prova a difendersi attaccando. Non negando mai di aver dominato Elvis, ma cercando di convincere lo spettatore di aver fatto solo quello che andava fatto per accontentare i veri desideri del suo pupillo. Addossando, infine, la colpa di tutto a quel pubblico che chiedeva sempre di più ad un Elvis che non era capace di rispondere no.

Il film si concentra così tanto sul rapporto tra Elvis e Parker che lascia spesso in troppo secondo piano figure che pure hanno avuto una importanza non secondaria nella vita del cantante. Su tutte, la moglie Priscilla che appare e scompare dal film quasi come una cometa che ritorna ciclicamente, ma che resta assente troppo a lungo. Anche la parentesi cinematografica è solo citata, mentre sono poco più che camei i rapporti che Elvis ebbe con altri miti dell’epoca. Paradossalmente, anche la storia stessa del rapporto con Parker, che pure è al centro del film, sembra saltare dei passaggi importanti. Gli esordi della loro collaborazione si riducono ad uno sbrigativo accordo al volo. Soprattutto, il film dedica uno spazio inaspettatamente breve alla dipendenza dalle pillole che fu ciò che uccise Elvis. A parte una scena climax verso la fine che è però troppo poco.

Si tratta, comunque, di assenze dopotutto comprensibili in una sceneggiatura che deve alimentare un film che dura due ore e quaranta minuti. Un tempo lungo che scorre via senza mai appesantire grazie alla messa in scena luminosa, al montaggio frenetico che fa largo uso di split screen, alla colonna sonora ovviamente eccellente. Soprattutto, grazie alle performance memorabili di Austin Butler e Tom Hanks. Di quest’ultimo è impossibile stupirsi. Il veterano attore californiano non ha essenzialmente mai sbagliato un film. Non fa eccezione neanche stavolta pur dovendo confrontarsi con un ruolo molto diverso dai suoi soliti. Una delle poche volte in cui non è l’eroe buono e immacolato, ma il cattivo viscido e senza scrupoli.

Una prova perfetta che finisce in secondo piano solo perché ancora più memorabile è quella di Austin Butler. Non solo per la somiglianza fisica con Elvis Presley. Il trentunenne attore sa di avere l’occasione che può far svoltare la sua carriera costellata fin qui da piccoli ruoli e serie tv. La sfrutta al massimo fornendo una interpretazione sofferta che lo trasforma in Elvis. L’aspetto, il modo di muoversi, l’espressione degli sguardi, la metamorfosi quando è sul palco, la parlata strascicata ma chiara e poi sempre più biascicante, la mutazione fisica dagli esordi al finale di carriera. Tutto è riprodotto alla perfezione da un Austin Butler che non gioca a fare il sosia di Elvis. È Elvis.

Un uomo che voleva solo cantare la musica che gli piaceva di più. Ma che finì per essere un re condannato a morire per non deludere chi credeva nel suo mito.

Elvis: la recensione

Regia e fotografia
Sceneggiatura
Recitazione
Coinvolgimento emotivo

Un film spettacolare retto da una messa in scena sontuosa e animato dalle performance memorabili di Austin Butler e Tom Hanks

User Rating: 4.6 ( 1 votes)

Winny Enodrac

In principio, quando ero bambino, volevo fare lo scienziato (pazzo) e oggi quello faccio di mestiere (senza il pazzo, spero); poi ho scoperto che parlare delle tonnellate di film e serie tv che vedevo solo con gli amici significava ossessionarli; e quindi eccomi a scrivere recensioni per ossessionare anche gli altri che non conosco

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