
El Clan: La recensione del film a Venezia
El Clan è quella che sorpresa che non ti aspetti a Venezia. Certo, qualche speranza la si nutriva per questo film, ma durante questi primi giorni di Festival molte speranze, specie per il cinema italiano, sono andate deluse. Invece El Clan va ben oltre le aspettative e ci si trova d’avanti un film di buonissima fattura sia per la storia che per la recitazione, condito da un lavoro di regia preciso e da una colonna sonora molto bella e avviluppata al racconto tanto da essere parte del periodo storico raccontato (la prima metà degli anni 80) e da integrarsi alla perfezione con le scene e il ritmo del film.
Il presupposto di El Clan e spunto da cui parte la storia è una famiglia “criminale” che agisce nell’ultima fase della dittatura argentina (e come detto dal regista nella conferenza stampa successiva alla presentazione “è sintomo del decadimento morale del periodo della dittatura”) e, inserendosi nel solco dei desaparecidos di regime, svolge una lucrosa attività di rapimenti e omicidi.
Il padre, interpretato da un magnetico Guillermo Francella, in patria un campione della comicità qui prestato con successo al cinema drammatico, è il vero motore di questo mondo del crimine tanto che la sua manovalanza e la sua famiglia sono solo pedine del suo carro che gode della protezione e amicizia con i militari al potere, ed è anche un personaggio che incute un enorme timore soprattutto nei suoi figli che subiscono soprattutto la personalità tirannica di questo criminale tanto da poter solo prendere in considerazione la fuga dal Paese per poter uscire da questo circolo vizioso.
Contraltare e coscienza pavida della famiglia è il figlio, Alejandro, interpretato da un convincente Peter Lanzani, che è spesso il braccio destro del padre ma si vede che in fondo ha una coscienza che si muove e si agita, ma la paura non gli permette di agire fino praticamente alle ultime sequenze del film. Alex è un personaggio di successo, giocatore di fama della nazionale di rugby argentina, i Pumas, in un periodo in cui però col rugby non si facevano i soldi, che grazie ai suoi agganci viene “usato” dal padre per arrivare a certi bersagli. Vorrebbe in certi momenti esserne fuori ma si vede che è bloccato, un po’ come dicevamo sopra dalla paura, un po’ dall’ombra ingombrante della famiglia, un po’ da una vita a cui non vuole rinunciare e Lanzani è bravo a far trasparire tutti questi sentimenti fino, come accennavamo prima, alle scene finali in cui interpreta scelte e scene estreme con una bravura encomiabile.
La crudezza della trama e il suo declinarsi in un organizzazione criminale ricordano molto, a noi italiani, l’ottimo Romanzo Criminale di Michele Placido, così come la costruzione e le atmosfere. Per gli amanti del genere diventa quindi un appuntamento da non perdere assolutamente.
La regia, come dicevamo, di Trapero è ottima, il film ha un ritmo assolutamente avvincente, aiutato anche dal montaggio che, in alcune occasioni, sfasa la narrazione su diversi piani temporali e ci porta avanti e indietro nella storia. Ottima la fotografia e, come dicevamo in apertura, la colonna sonora che integra canzoni americane ad altre più tipicamente argentine.
Visti questi primi giorni di Festival iniziamo ad invidiare profondamente questo tipo di registi argentini, noi che invece ci dobbiamo tenere la nostra “rinascita cinematografica italiana”.
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Oddio Peter il mio idolo *-*
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