
Daredevil: Recensione dell’ episodio 1.03 – Rabbit in a white snow
Magari da qualche parte, nel mare magno del web, esiste anche un catalogo delle frasi fatte ordinate per numero di citazioni o a seconda di quale sia apparsa prima con persino il nome della persona che per prima le ha usate. In questo ipotetico vademecum si troverebbe in ottima posizione anche quel “gli occhi sono lo specchio dell’anima” di cui tanto si abusa in scadenti dialoghi da insulso romanzetto rosa. Premessa spietatamente critica che lascia intendere che mai e poi mai in una recensione il sottoscritto si piegherebbe ad usarla. E, invece, eccoci qui a scriverla con ben più di una punta di evidente imbarazzo. Perché in “Daredevil” una frase tanto vituperata è un buon punto di partenza.
Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Gli occhi come mezzo attraverso cui si esprime la propria interiorità tramite lo sguardo. Ma se quegli occhi sono sempre coperti da occhiali scuri che nascondono una sofferta cecità (pur tutt’altro che invalidante per Matt), come comunicare il non detto? Gli occhi sono davvero la prima cosa che si guarda in una persona (si, lo so, sembra il campionario delle frasi fatte) quando si cerca di comprendere il suo atteggiamento nei nostri confronti. E non è un segreto che è giocando con lo sguardo che un attore riesce ad occupare la scena dominandola senza parlare. Ma gli occhi di Matt Murdock sono sempre coperti e necessariamente inespressivi. Eppure, Charlie Cox riesce a riempire di sé ogni inquadratura in cui è presente. Non solo quando è aiutato dalle sempre ottime coreografie di combattimenti adrenalinici che la camera riesce a seguire senza perdersi nel caos di azioni ad alta velocità (e stavolta lo vediamo bene nella rissa al bowling). Ma soprattutto quando ad essere in primo piano non è il vigilante con la maschera, ma l’avvocato esordiente Matt Murdock che si tratti di un colloquio con un enigmatico uomo d’affari o con un poco collaborativo cliente o di una arringa decisiva nel primo caso importante della sua carriera.
Sono proprio le parole di Matt in tribunale a spiegare la filosofia del violento diavolo custode di Hell’s Kitchen. Perché ci sono i fatti oggettivi e le loro interpretazioni soggettive. C’è la giustizia della legge che compete ai ricattabili giurati del tribunale e quella della strada che spetta all’incorruttibile difensore della città notturna. C’è il bene e c’è il male e i confini tra questi due opposti concetti, tra questi yin e yang della morale. Lo studiato silenzio che precede l’efficace discorso di Matt è tante cose (un teatrale gioco per attirare l’attenzione della corte, un furbo mezzo per accrescere la tensione del momento, una pausa necessaria per captare informazioni utili con i suoi sensi acuiti), ma è soprattutto un affacciarsi sul flusso di domande irrisolte con cui la coscienza inquieta dell’uomo mascherato deve confrontarsi quotidianamente.
La consapevolezza che quei confini tra bene e male sono tanto sfumati che attraversarli in entrambe le direzioni è quasi inevitabile se non addirittura indispensabile non basta ad assolvere Matt dai propri sensi di colpa (e il suo trovarsi ancora una volta a parlare con un prete ne è un segno) e nemmeno è una spinta sufficiente a fargli compiere il passo ulteriore verso la punizione ultima dei colpevoli. Perché la violenza dell’uomo in maschera si ferma a picchiare i cattivi di turno, ma finora nessuno è stato mai ucciso. John Healy si ammazza da solo accusando il vigilante di essere “un codardo” ponendo quindi Matt di fronte ad un’ulteriore domanda su quale debba essere il suo ruolo.
Nel film di Bryan Singer il volto di Soze era infine svelato dal cambiamento nel modo di camminare di Verbal Kint con un magnifico Kevin Spacey che in pochi gesti svelava la verità che abilmente ci era stata nascosta davanti agli occhi distratti dal suo racconto. Qui, invece, Fisk appare nel finale di questo episodio in tutta la sua massiccia fisicità. L’imponente figura di Vincent D’Onofrio risalta ancora di più sul bianco del quadro che sta ammirando grazie al confronto con l’esile silhouette della Vanessa interpretata da Ayelet Zurer. Ma sono i particolari prima ancora che le parole a mostrarne anche una sorprendente fragilità. L’immobilità timorosa davanti alla enigmatica tela, le grosse dita che tambureggiano nervose nel nulla, lo sguardo intimidito (ancora gli occhi specchio dell’anima) che risponde incerto all’avvicinarsi di lei. E poi la voce profonda che sembra emergere a fatica da un abisso di inatteso timore e sofferente solitudine. Il tono di chi non è abituato a dialogare, ma solo a dare ordini. Di chi si sente, infine, tragicamente solo e quasi invisibile come un coniglio in una tempesta di neve. È questo il dominus tanto feroce che pronunciare il suo nome è la più certa delle condanne a morte? Sappiamo che la risposta è si, ma il modo in cui ci viene presentato Fisk ci conferma che le parole di Matt forse non si riferivano solo a sé stesso, ma senza che lo sapesse stavano parlando forse anche della sua ancora ignota nemesi.
“Daredevil” continua ad affascinare per la bravura degli attori, la maestria di fotografia e regia e soprattutto per la presenza di personaggi che sanno tenersi lontani dagli stereotipi del genere. Siamo solo al terzo episodio, ma si può già dire con certezza che questa serie non passerà inosservata come un coniglio in una tempesta di neve.
1.03 – Rabbit in a white snow
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