
Crisis in Six Scenes: Recensione della serie di Woody Allen
Esistono nel mondo dei cinefili due fazioni opposte in grado, quando serve, di farsi la guerra peggio di quanto abbiano fatto nella storia Guelfi e Ghibellini. Ovviamente si parla di guerra verbale, ma si sa che a volte le parole feriscono più delle spade.
Detto ciò, l’oggetto del contenzioso è uno di quegli uomini che ha avuto (e continua ad avere) l’onere e l’onore di calcare, con il suo metro e 65, la scena dal lontanissimo 1966, riuscendo in questi 50 anni a cambiare la storia del cinema.
Vista la quantità di film che è riuscito a girare in questi anni (il 47° è nelle sale proprio ora), i suoi estimatori si sono quasi naturalmente distinti nelle due correnti di cui sopra. C’è chi dice, insomma, che Woody Allen ad un certo punto abbia perso la trebisonda e abbia iniziato nei suoi film a girare intorno e chi, al contrario, crede che sia ancora artisticamente vivo e abbia ancora molto da raccontare.
Nel 2016 Allen ha deciso di esplorare un mondo nuovo – quello della serialità televisiva – non senza battersi il petto per il pentimento ogni secondo della sua avventura.
Eppure ad 81 anni il regista, attore, sceneggiatore, commediografo, compositore, scrittore, clarinettista newyorchese è riuscito, con il suo Crisis in Six Scenes, a regalare agli spettatori del piccolo schermo un prodotto che, con i suoi difetti e i suoi pregi, non ha nessun metro di confronto.
Anni ’60, la società americana è sull’orlo di una rivoluzione e nel bel mezzo di questi sconvolgimenti sociali c’è Sidney Muntzinger.
Il protagonista di questa miniserie (o, forse sarebbe più corretto dire, di questo lungo film divisi in sei atti di venti minuti circa l’uno) è S.J. Muntzinger, un anziano scrittore e pubblicitario. Ad interpretarlo è lo stesso Woody Allen e non c’è da meravigliarsene, visto che il personaggio rappresenta a suo modo il vestito, il territorio più familiare al regista.
Svogliato, cinico, ipocondriaco, insoddisfatto della sua carriera, lo ritroviamo seduto dal barbiere a lamentarsi del suo nuovo lavoro – una serie tv -mentre tenta di convincere lo stesso, che critica con grande disprezzo i suoi ultimi romanzi, a fargli un taglio che lo faccia assomigliare a James Dean. Il nostro divide la sua annoiata esistenza con sua moglie Kay, una terapista di coppia con un’evidente passione per il bicchiere e un appuntamento fisso con il book club delle sue attempate amiche.
A scoppiare questa bolla di normalità giunge inaspettata Lenny, una giovane ribelle in fuga appartenente ad una famiglia che si è presa cura di Kay dopo la morte della madre.
L’incontro con la fuggitiva hippie – che mentre si ingozza di cibo industriale non fa altro che parlare di come il capitalismo abbia rovinato la vita tutti – farà scattare nei coniugi una reazione opposta. Se infatti Kay – come Allen – si mostrerà affascinata dalle idee e dal modo di pensare dell’attivista, Sid cercherà di tenere le distanze, finendo poi alla fine anche lui nel gioco a cui lei chiederà ad entrambi di partecipare.
Scoperte le carte, Allen costruisce una commedia degli equivoci altalenante, in cui si alternano discorsi politici al limite del vacuo a piccoli sketch in cui a farla da padrona è la bizzarria dei due protagonisti, Kay e Sid, sempre fuori luogo.
E proprio quando sembra che la situazione sia arrivata al suo culmine, quando tutti gli equivoci si palesano nella stessa stanza davanti agli occhi spaventati dei due protagonisti, ciò che sembrerebbe inevitabile diventa impensabile, impossibile. Quella grande bolla di sicurezza che pare scoppiata si crea quasi naturalmente, riportando tutti ad una situazione di normalità. Quasi come se non fosse successo niente, si torna dove tutto ha avuto inizio, a Sid e alla sua eterna insoddisfazione.
Forse questa è la più grande debolezza di Crisis in Six Scenes. Una debolezza che potrebbe, come del resto ha fatto nella critica, innescare nel pubblicare una partigianeria simile a quella già vista nel cinema.
Eppure questa serie, come accennato all’inizio, non ha né parenti né rivali nella serialità televisiva. Semplicemente è diversa. E forse unica. A quanto pare Allen in tv non ripete.
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