
Carlton Cuse: Lost è finito, e ora? Intervista ad uno dei produttori della serie Tv cult
La scorsa estate sono andato a fare escursionismo con mia figlia adolescente sulle Alpi Svizzere. Il primo giorno abbiamo lasciato il piccolo villaggio di Wengen e abbiamo raggiunto il valico alpino, Kleine Scheidegg, dove ci siamo fermati per prendere fiato. Mentre stavo bevendo un po’ d’acqua e mi stavo godendo il panorama meraviglioso, ho notato un escursionista che si stava avvicinando a me. Era barbuto ed abbronzato, indossava uno zaino da alpinismo svizzero e utilizzava bastoncini da trekking. Pensavo che stesse per informarci di qualche pericolo. Invece mi ha raggiunto e con un inglese dall’accento tedesco mi ha chiesto, “Sei Carlton Cuse, di Lost?”. Con sgomento, ho risposto, “Sì”.
Allora ha detto, “Perchè non hai spiegato l’orso polare?”. Mentre stava entrando nei dettagli sulla sua teoria di come gli orsi polari siano finiti in una giungla tropicale in Lost, mia figlia ha alzato gli occhi al cielo. Perfino qui, in questo luogo remoto, non potevo scappare dagli ultimi sei anni della mia vita. Ho trascorso quel periodo lavorando in media 80 ore a settimana scrivendo e producendo uno show televisivo. Dopo la fine di Lost a maggio, la prima cosa che volevo fare era andare in qualche luogo molto lontano e far riposare il mio cervello. Ma ho scoperto velocemente che c’era un’enorme differenza tra allontanarmi e lasciare lo show alle spalle.
A Hollywood si racconta la storia di quando, proprio dopo la premiere di Tootsie, Dustin Hoffman stesse camminando per le strade di Manhattan con un amico, quando vide il suo nome sulla pensilina di un cinema. Si girò verso di lui e disse in tutta serietà, “Credi che lavorerò mai di nuovo?”
Anche se probabilmente inventata, questa storia è abbastanza rassicurante per quelli di noi che lavorano nel business del cinema e della TV. Sottolinea che perfino i più talentuosi di noi, dopo un intenso periodo di lavoro su un progetto, si dibattono con la domanda “Cosa farò dopo?”

Lost è stato un successo in più di un centinaio di paesi in tutto il mondo.
Ha generato un nuovo termine – transmedia – per descrivere tutti i contenuti dei media (come i Webisodes, gli alternative reality games e i video virali) che circondano un progetto televisivo o un film. E’ stato un fenomeno così irresistibile che come potò lasciarmi alle spalle la grande ombra che ha gettato sulla mia vita? Avrebbe senso anche solo provarci?
Ancora prima che lo show finisse, la domanda “cosa farai dopo?” sembrava essere la prima cosa che usciva dalla bocca di tutti. Cosa significava il non avere una risposta che soddisfacesse me o qualsiasi altra persona? Più di tutto mi domandavo cosa, se c’era, mi avrebbe interessato abbastanza per tornare a lavorare.
Ero responsabile del mio stesso destino. Più o meno in questo periodo una nuova stagione di Lost avrebbe fatto il suo debutto altamente pubblicizzato. Invece, dopo tre anni di show, io ed il mio collega Damon Lindelof, abbiamo fatto una cosa che non era mai stata fatta prima in un programma televisivo: abbiamo negoziato una data finale. Come J. K. Rowling disse ai suoi lettori che ci sarebbero stati sette libri di Harry Potter e non altri, noi volevamo definire la lunghezza del viaggio dello show per i nostri telespettatori. Ci siamo accordati con la ABC per fare altri 48 episodi divisi in tre stagioni. Per noi, Lost è stata una storia con un inizio, una parte centrale ed una fine, e volevamo avere l’opportunità di raccontare la nostra storia, e chiudere il nostro show, alle nostre condizioni.
Il risultato è stato che ci siamo cancellati da soli.
In televisione, quando uno show finisce, sparisce di vista velocemente quanto i rivali politici di Vladimir Putin. Due settimane dopo la messa in onda del finale, gli uffici di Lost furono svuotati e diventarono il centro di un nuovo show della ABC, No Ordinary Family. Il cartellone pubblicitario di Lost negli studi della Disney fu sostituito da uno per Detroit 1-8-7. Nei promo televisivi, il mistero dell’isola era stato rimpiazzato dal mistero di Bristol Palin in Dancing with the stars.
Pensavo che Lost fosse finito definitivamente, ma mi sbagliavo. La settimana successiva tornai nella “editing room” per finire un lavoro su un’aggiunta segreta alla serie che avevamo girato per i DVD. Mi riunii con i miei collaboratori per gli Emmy, i Saturns e gli Scream Awards. E più recentemente, quattro dei sei numeri mistici che continuavano ad apparire nello show sono apparsi nell’estrazione della lotteria Mega Millions, e mi sono ritrovato nelle news dei media a commentare la coincidenza. Alla fine ho reallizzato che non ci sarebbe mai stata una conclusione definitiva all’esperienza di Lost.
La conclusione sarebbe stata ambigua tanto quanto la fine stessa della serie.
Durante i sei anni io e Damon abbiamo raggiunto un livello di riconoscimento solitamente riservato ad attori o a qualche regista di film, certamente non a produttori di show televisivi. Abbiamo letto la top ten list del Late night with David Letterman, sembrando, come ha detto un amico, come se fossimo appena scesi dall’Enterprise. Siamo stati intervistati da Diane Sawyer. Abbiamo filmato degli sketch con Bob Newhart, Jimmy Kimmel e i Muppets, anche se non tutti allo stesso tempo. Eravamo così spesso in tv che siamo stati costretti ad unirci all’Aftra, l’unione degli attori.
Mentre tornavo dalla Svizzera verso Los Angeles, sono stato felice di scoprire che le cose si erano fatte all’improvviso molto più tranquille. Ero in grado di mettere il naso nel business di mia moglie e offrirle consigli indispensabili sulla sua routine quotidiana, senza i quali era riuscita in qualche modo a sopravvivere. Ora il telefono non squillava più in continuazione, e ogni volta che controllavo la mia posta elettronica non c’erano 20 domande urgenti sulla produzione.

Provavo sollievo ma anche grande incertezza.
La maggior parte della pressione che stavo provando era interiore, ma è stata ingigantita dalle aspettative di quelli intorno a me. Come show runner televisivo ti viene richiesto un ammontare prodigioso di lavoro creativo. Abbiamo scritto e prodotto circa 25 ore di Lost in un solo anno. Come artista, se hai successo nel fare qualcosa di fresco e nuovo, spesso sembra facile: i barattoli di zuppa di Warhol, per esempio. E quando lo fai velocemente, sembra ancora più semplice. Un romanziere torturato che impiega sette anni per scrivere un libro ottiene molta più libertà. Ma se sei in grado di produrre una buona ora di video entertainment ogni otto giorni, quanto può essere grossa la faccenda di trovare una nuova idea?
Ho aperto il file in cui gettavo idee per nuovi progetti per i quali non avevo tempo durante la messa in onda dello show. Leggendoli, sembrano come un diario ellittico di quegli anni. Per esempio, nei primi giorni oscuri della stagione 3, fronteggiando la cura di 15 attori e la mitologia tentacolare, senza ancora una data di fine in vista, ero colpito da ciò che apparentemente sembrava una grande idea per una piccola rappresentazione teatrale a due personaggi per una commedia romantica.
Avevo iniziato ad andare al cinema e a leggere lunghe e dimenticate pile di libri. Avevo anche ricominciato a guardare la tv. Durante la serie, dopo aver scritto sceneggiature e aver fatto l’editing di episodi tutto il giorno, era quasi impossibile per me tornare a casa e guardare sceneggiati televisivi senza che il mio cervello critico non si mettesse all’opera. Invece di venire preso dalla narrativa, riuscivo solo a vedere cosa c’era al di sotto – i blueprint e i materiali da costruzione. Ma ora, rimosso dal processo, ero in grado di godermi veramente gli episodi di Eastbound and Down, Modern Family e The walking dead. Le mie batterie creative avevano cominciato a ricaricarsi. Un giorno mi arrivò una e-mail “Unfair Employer – Do not work notice” dalla mia nuova unione, Aftra. Non mi era permesso di accettare un lavoro come attore in una nuova serie della tv via cavo chiamata Sordid Lives. Whew. L’ho depennata dalla mia lista delle cose da fare.
Ho discusso progetti con una varietà di produttori ed executives.
Oscillavano dal sublime – un’adattazione del meraviglioso romanzo di Stephen King, Under the dome, che per una varietà di ragioni non ha funzionato – al decisamente meno sublime: un ragazzo e un fantasma sono un team di detective. Oppure il mio preferito: uno show su un’addestratrice hot di delfini che lavorano in un acquario di giorno, ma vanno in missione segreta per il governo di notte. (So cosa state pensando: No, non so come fanno a riportare i delfini all’acquario ogni mattina entro l’alba).
Mentre i mesi proseguivano, il mio agente dimostrava una grande pazienza mentre io rifiutavo lavori da show runner e incarichi da sceneggiatore. Stavo procedendo con cautela ma anche godendomi la libertà di non essere legato ad uno show.
A Hollywood non puoi impegnarti di più di quando fai una serie tv. Perfino i matrimoni impallidiscono al confronto. I matrimoni non hanno bisogno di contratti pluriennali inoppugnabili. Almeno la maggior parte dei primi matrimoni. Nel caso avesse successo, lavorerei in modo incessante su quell’unico progetto per quelli che potrebbero facilmente essere i prossimi cinque o più anni della mia vita.
Prima che i miei figli tornassero a scuola, organizzammo un viaggio in famiglia nell’east coast.
In una fermata a Washington, stavamo camminando sul Lincoln Memorial. Dentro in profondità nel tempio dorico mi ritrovai a leggere le parole del secondo discorso inaugurale di Lincoln, che sono incise sulla parete nord. Mentre le stavo assimilando, iniziai a sentire i brividi sul collo. Nonostante una tendenza verso l’ipocondria, sapevo che era un buon segno. Le parole di Lincoln erano un tentativo di guarire il contrasto profondo tra un Nord ed un Sud immersi nella Guerra Civile. Un ottavo della nostra popolazione era ancora vincolato alla schiavitù. Essendo specializzato in storia americana, sapevo che questo era un periodo di ricco ed interessante drama. Ma più importante, mentre leggevo quelle parole riguardo la profonda divisione tra due gruppi molto differenti di persone che condividono un insieme di confini, mi sembravano molto attinenti al giorno d’oggi. E c’era qualcos’altro di interessante riguardo la guerra civile: niente orsi polari.
L’idea di una storia basata in questa epoca ha preso piede, i personaggi hanno preso vita, e molto presto è stato tutto quello a cui riuscivo a pensare.
Mi aspettavo che il mio agente urlasse o piangesse, ma non fece nessuna delle due cose. Invece, mi disse che aveva un altro cliente che era interessato a lavorare ad un progetto sulla guerra civile, uno sceneggiatore-regista chiamato Randall Wallace. Volevo incontrarlo? Conoscevo Randall Wallace per il suo lavoro in Braveheart, tra gli altri film. Dissi assolutamente sì.
Un nuovo progetto
Quando io e Randall iniziammo a parlare, realizzai quanto mi erano mancate le collaborazioni creative che stanno alla base dei film o della televisione. Insieme abbiamo creato una storia, Point of Honor, che in generale riguarda il viaggio di una famiglia confederata in Virginia attraverso il tumulto della guerra civile. E nonostante sia enormemente diverso da Lost, non sembra però meno interessante.
Mentre mi imbarco in questo nuovo progetto, so cosa mi si profili davanti. Sfide immense nel fare uno show a tema storico sotto strette restrizioni di tempo e denaro. Battaglie di network e crisi di produzione. E paragoni inevitabili con Lost. Ma per quanto tutto questo possa essere turbolento, realizzo che questo è ciò che amo veramente fare. Perché niente eclissa il brivido di avere una buona storia da raccontare.
NYTimes.com – Carlton Cuse