Cast principale: Chadwick Boseman, Michael B. Jordan, Lupita Nyong’o, Danai Gurira, Letitia Wright, Martin Freeman, Andy Serkis
Da Iron Man nel 2008 ad oggi sono passati esattamente dieci anni. Impiegati a costruire quel Marvel Cinematic Universe (MCU) che rappresenta la più importante innovazione nel modo di concepire il cinema. Non più singoli film scollegati, ma un unico universo multimediale che coinvolge film, serie TV, fumetti scambiandosi personaggi, legandosi l’uno all’altro con le ormai proverbiali scene durante e dopo i titoli di coda (che hanno convinto gli spettatori a scoprire quante persone lavorano dietro lo schermo), proponendosi come un modo completamente diverso di raggiungere un ineguagliabile successo di critica e pubblico. Eppure, qualcosa ancora mancava in questo caleidoscopio di idee e spettacolo. Mancava appunto tutto quello che c’è inBlack Panther.
Un film all black per il primo supereroe nero
Diciottesimo film del MCU, Black Panther si aggiunge alla lista delle pellicole monografiche incentrandosi su un personaggio già apparso in Captain America – Civil War dove, pur giocando un ruolo tutt’altro che secondario, era comunque solo un nome (e che nome!) tra i tantissimi che arricchivano il conflitto tra Steve Rogers e Tony Stark. Ma il re del Wakanda ha un posto troppo speciale nella storia del fumetto per accontentarsi di essere una gloriosa comparsa in un film altrui. Ed era perciò inevitabile e ancor più auspicabile che una pellicola intera fosse dedicata al prediletto della dea Bast.
Black Panther è figlio anche lui di Stan Lee (che non si fa mancare neanche stavolta un classico cameo) e Jack Kirby, ma soprattutto è partorito dalla necessità di riempire una casella mancante: un supereroe nero. Non è un caso che il suo anno di nascita sia il 1966, anche se il suo nome non è un omaggio al movimento omonimo che sarebbe arrivato due anni dopo. E tuttavia proprio in quegli anni di contestazione la comunità afro – americana invocava un’uguaglianza che più modestamente finiva per contagiare anche un universo all white come era quello del fumetto americano. Paradossalmente, a distanza di più di cinquant’anni, un film come Black Panther diventa ugualmente necessario perché quei diritti tanto faticosamente ottenuti sono sempre più spesso calpestati da un razzismo strisciante confermato da troppi episodi di cronaca. A questa situazione, i Marvel Studios rispondono con un film dove buoni e cattivi sono tutti rigorosamente di colore come a voler sottolineare quanto irrilevante sia il colore della pelle per essere eroi e villain. Una precisazione ovvia che è tuttavia bene non smettere mai di ricordare perché troppi sono quelli che vorrebbero farne dimenticare la sacrosanta verità.
Se si escludono Martin Freeman e Andy Serkis, l’intero cast di Black Panther è di colore raccogliendo il meglio che la colonia afro – americana di Hollywood ha da offrire oggi. Non a caso anche un ruolo di breve durata come quello di N’Jobu è affidato a Sterling K. Brown che tanti premi sta collezionando ultimamente. Un modo esplicito di tenere lontano il MCU da ogni anche più remota accusa di whitewashing (per quanto non ce ne fosse bisogno in verità).
Uno scenario insolito per un conflitto di lunga data
Black Panther svolge il compito assegnatogli di celebrare la metà di colore del cielo fondendo in un unico crogiuolo gli elementi più disparati della cultura afro – americana con gli stilemi classici dei fumetti di supereroi. E così il Wakanda di cui T’Challa (Chadwick Boseman) è sovrano diventa un affascinante e incoerente miscuglio di tecnologie fantascientifiche e medicina sciamanica, di grattacieli in acciaio e vetro e capanne di fango e paglia, di tute e armi hi – tech e abiti e accessori tribali, di raffinata diplomazia internazionale e primitivi riti ancestrali. Un mondo nascosto in piena vista dove si possono vedere aerei supersonici che sanno rendersi invisibili sfrecciare su steppe in cui si allevano rinoceronti da battaglia. Un regno dove il potere ultra tecnologico della Pantera Nera si guadagna attraverso riti magici. Una società che riesce ad amalgamare con incredibile spontaneità il passato più remoto con il futuro più lontano. Una nota innovativa per l’universo Marvel portata in scena non immaginando ciò che non esiste, ma riscrivendo ciò che abbiamo sempre definito primitivo.
Questo felice connubio tra tradizione e futuro è il felice risultato di un compromesso secolare basato su un principio tuttavia egoistico. Bastare a sé stessi significa anche dimenticare il resto del mondo fingendo che le sofferenze altrui siano un pericolo per la propria pace. Assumere implicitamente che quella discriminazione razziale di cui i wakandiani sono a conoscenza sia un nemico distante contro cui non è possibile combattere e di cui è meglio dimenticarsi. Sacrificare il bene altrui in nome di un paradiso privato. Riecheggia in questo contrasto la vecchia dicotomia che esisteva tra un Martin Luther King e un Malcolm X ai tempi delle lotte non troppo lontane per il riconoscimento dei diritti dei neri. Bisognava combattere per il sogno di un mondo senza differenze o piuttosto crearne uno nuovo dove le vittime si rivoltano contro i carcerieri? Con gli ovvi distinguo, le due figure leggendarie del movimento per i diritti civili delle persone di colore rivivono in T’Challa e in Killmonger (Michael B. Jordan). La ribellione del principe rinnegato non è solo figlia della vendetta per la morte del padre e il ruolo negatogli, ma è anche la reazione violenta che anche oggi spesso nasce dai soprusi e le ingiustizie che i neri devono subire in una America che solo a parole nega ogni discriminazione. Non c’è bisogno di andare indietro fino alla rivolta di Los Angeles del 1992 in seguito al pestaggio di Rodney King perché troppo più recenti sono le cronache di persone di colore uccise senza motivo da poliziotti bianchi costantemente assolti.
Se Killmonger è, quindi, la voce urlante di non vuole aspettare che il sogno divenga realtà, T’Challa è l’attivismo paziente di chi sa che occhio per occhio fa diventare tutti ciechi. Ma il neo re dovrà comunque riconoscere che le colpe non sono tutte da un solo lato. Se un Killmonger esiste è perché i re prima di lui hanno preferito rifiutare quel ruolo guida che potevano avere. Black Panther è allora anche un film di formazione dove la vittoria finale non è una meta raggiunta, ma un punto di partenza per una sfida più importante per la quale si deve ringraziare proprio il villain che perdendo ha lasciato un messaggio da non dimenticare.
Black Panther porta nell’universo Marvel un altro aspetto che mancava perché, se è vero che non c’erano finora supereroi di colore, è altrettanto veritiero che mancava anche una forte componente femminile. Affermazione che non è smentita dalla presenza di personaggi come la Vedova Nera e Scarlet perché queste due sono supereroine e, quindi, in un certo senso casi estremi. Ciò che, invece, mancava era l’eroismo di donne senza altri poteri che la propria intelligenza e il proprio coraggio. Ragazze normali che sanno essere inventori eccellenti come Shuri (Letitia Wright). Donne votate ad una causa che diventano guerriere invincibili grazie solo alla propria volontà come le Dora Milaje guidate da Okoye (Danai Gurira). Innamorate che antepongono una causa più alta al proprio amore ma che non si rassegnano alla sconfitta come Nyako (Lupita Nyong’o). Un universo femminile fatto di persone comuni che sanno diventare straordinarie.
Black Panther è alla fine un film riuscito che riesce a sposare l’adrenalina del cinecomic con i miti e i dilemmi della società afro – americana (facendosi accompagnare da una colonna sonora rap e hip hop che rafforza l’identità culturale della pellicola). Adesso davvero l’universo Marvel può dirsi completo.
In principio, quando ero bambino, volevo fare lo scienziato (pazzo) e oggi quello faccio di mestiere (senza il pazzo, spero); poi ho scoperto che parlare delle tonnellate di film e serie tv che vedevo solo con gli amici significava ossessionarli; e quindi eccomi a scrivere recensioni per ossessionare anche gli altri che non conosco
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