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Black Mirror: Recensione dell’episodio 3.01 – Nosedive

popolarità s. f. [dal lat. popularĭtas -atis «simpatia popolare» (in quanto si goda o si ricerchi): il fatto di godere il favore o il consenso del popolo, della gente in genere. (Treccani)

Chi dice di non curarsene mente prima a se stesso, poi agli altri. Chi crede che non sia influente, o ha un’autostima tale da non lasciarsi toccare dalla questione o non ha coscienza di come funzionino i rapporti umani. Da sempre. Tuttavia non è facile non giudicare, è probabilmente l’azione più naturale che compiamo. Lo facciamo con le cose ogni giorno della nostra vita, anche il solo scegliere quale camicia indossare al mattino è una scelta basata su un giudizio.

Il giudizio è il nostro metro, che ci permette di riconoscere ciò che vediamo in base a ciò che già conosciamo, alle idee che possediamo, ed è quindi inevitabile che questa bussola venga usata anche per le persone. Il colore degli occhi e dei capelli, la grandezza delle mani, l’altezza, il peso, il portamento, il modo di gesticolare. La cinta, il cappello, le scarpe, la gonna, il gilet, la giacca. Quando guardiamo ad una persona guardiamo all’insieme dei piccoli particolari che la compongono e ci facciamo un’idea. Giudichiamo, che sia di fronte a noi o chiusa dentro uno schermo. Oggi – nel nostro oggi come in quel distopico oggi che Black Mirror immagina – l’essere sempre e comunque valutati è in grado di condizionare la vita delle persone in una maniera che gli stessi interessati spesso non comprendono, finendo così per soccombere.

black mirrorDi Lacie potremmo dire che è una sorridente ragazza in carne, con grandi occhi cerulei e capelli color carota, a cui piacciono le unghie laccate, il cappuccino, le gonne ampie e i maglioncini rosa. Questa è Lacie per noi e per tutti coloro che nel mondo l’hanno valutata come un 4.2. Però non sanno quanto tempo trascorra la ragazza davanti allo specchio ad esercitarsi nell’arte del sorridere. Non sanno che la metà di quel biscotto che ha fotografato invece di mangiarlo l’ha sputato. O forse lo sanno, visto che anche loro tutti i giorni fanno le stesse cose.

Potrebbe essere l’inizio di una storia vera, ma Lacie non è che un altro personaggio di quella inquietante favola nera che è Black Mirror, che inaugura il suo arrivo su Netflix con uno degli episodi più amaramente reali mai prodotti.
Partendo sempre da quel “e se..” che Charlie Brooker pone come fondamento del suo racconto antologico, Nosedive racconta di un mondo in cui la popolarità sociale ha assunto forme e modi che incidono sulla vita degli individui in maniera radicale. Le persone sono classificate su una scala da 0 a 5. Oltre ai voti attribuiti a foto, video e qualsiasi altro materiale che essi postano su questa grande nuvola sociale, anche ogni interazione è sottoposta a giudizio. Un sorriso, uno sgambetto, un gesto di sfida possono comportare un abbassamento o un innalzamento della propria reputazione, determinando così la possibilità di accedere o meno a determinati servizi, sanità, lavoro, trasporti, tutto. Se sei un 4.5 fai parte dei Prime Influencer, se sei un 3 non puoi prenotare un volo last minute, se sei un 2.4 non puoi lavorare, se sei uno 1.5 sei un pariah.

black mirror

All the world’s a stage, And all the men and women merely players. (William Shakespeare, As You Like It)

Per quanto estremo, è un discorso così lontano dal nostro quotidiano? No. A nessuno è capito di ritrovarsi ad un colloquio di lavoro a parlare della propria social reputation? No.  Siamo in grado di vivere anche solo un giorno senza connetterci, senza condividere almeno un pensiero sulla rete? No.
Per questo comprendiamo, ci immedesimiamo, ci riconosciamo in Lacie, nella sua ossessiva ricerca del consenso, per ottenere quello sconto per la casa dei suoi sogni, quel lavoro ai piani alti, quella prenotazione all’ultimo minuto per arrivare in tempo al matrimonio della sua migliore amica, quel surrogato virtuale di approvazione, accettazione, amore che potrebbe (forse) colmare quell’enorme vuoto che porta dentro.

In Nosedive una profonda solitudine (che ricorda da vicino, anche attraverso i colori e le ambientazioni, la solitudine di Theodore Twombly in Her) convive con un’auto-castrazione emozionale che conduce ad una realtà finta, stucchevole, priva di contenuto.
Eppure per la prima volta Brooker sembra quasi dirci che si puó sperare. Ci si puó emancipare, come Ryan e Susan, smettere di calcolare, pianificare e recitare. E sentirsi liberi, liberi di fare e dire quello che vogliamo senza aver paura di cosa pensino gli altri, di urlare al mondo i nostri ma anche i nostri no. Essere più di un numero e meno di una nuvola.

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Valentina Marino

Scrivo da quando ne ho memoria. Nel mio mondo sono appena tornata dall’Isola, lavoro come copy alla Sterling Cooper Draper Price e stasera ceno a casa dei White. Ho una sorellastra che si chiama Diane Evans.

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