
Big Little Lies: donne alla ricerca della quiete dopo la tempesta
“Una barca che anela al mare eppure lo teme”. Molte volte nella vita mi è capitato di leggere e rileggere questi versi di Edgar Lee Masters. A volte tuonavano nella mia testa come un arrendevole testamento (che è poi il suo vero significato, visto che appartengono ad uno degli immaginari epitaffi dell’Antologia di Spoon River), altre invece avevano il sapore dell’incitamento al fare di più, un’esortazione proveniente da chi della sua vita aveva fatto poco e ora non aveva più neanche la possibilità di rammaricarsene (o è questo il vero significato?).
Spesso ho pensato a queste parole durante la visione di Big Little Lies, alternando sentimenti di sfiducia a ottimismo, proprio come le maree che cambiano intensità con i cicli lunari, proprio come le protagoniste di questo viaggio. E da donna è stato difficile non sentirsi in prima persona coinvolta, tanto che è praticamente impossibile scrivere una recensione che non parli anche un po’ di me.
Da spettatrice mi sono ritrovata a salire di volta in volta sulla barca di Jane, Madeline, Celeste, Renata o Bonnie, a prendere con loro il largo facendo uso anch’io del loro equipaggiamento, di quel bagaglio di esperienze che le ha portate a lasciare quel molo. Un bottino fatto di matrimoni riusciti o meno, di figli la cui repentina crescita rappresenta ogni giorno una nuova sfida, di amicizie vere o di cortesia, di relazioni sociali basate su rapporti di forza.

Il mare come il caso (chiamatelo come volete, destino, fatalità, coincidenza) sono due chiavi di lettura fondamentali di Big Little Lies. L’epilogo verso cui la storia procede, la grande tempesta annunciata non è che il risultato di un susseguirsi di avvenimenti che fanno in modo che i tragitti di queste donne non solo si incrocino, ma che spesso si ritrovino a seguire un’unica grande traiettoria.
A ricordarci che “tutto questo non sarebbe accaduto se” la comunità di Monterey, spettatrice ma anche personaggio stesso di questa amara rappresentazione che, ricordando da vicino quella che era la funzione del coro nella tragedia greca classica, racconta la sua di storia, lasciando cadere poco a poco il velo e mostrando le crepe di una realtà ben diversa dalla patinata immagine di una vita perfettamente ordinaria, senza però mai riuscire a catturarla in pieno.
Eppure la vita di Jane, Madeline, Celeste e le altre di ordinario ha davvero tanto. Il racconto di Jane Moriarty, autrice del libro a cui la miniserie si ispira, dal quotidiano attinge a piene mani, mostrando senza ipocrisia, e lontana dalla banalizzazione, ciò che i giornali non dicono quando parlano di relazioni abusive e di stupri. Vittime di amore, in una società che – suonerà banale e ripetitivo, ma mai come ora necessario – di quell’impronta maschilista non riesce proprio a liberarsene, incapace com’è di emanciparsi dall’idea che la violenza, verbale quanto fisica, sia un segno di potere. Un modello comportamentale che non riguarda solo gli adulti (presumibilmente coloro che hanno coscienza di come funzionino i rapporti tra uomo e donna), ma che investe anche chi vive l’età della spensieratezza e dei giochi. La scuola di Otter Bay non è che la “piccola” immagine della cittadina di Monterey, la potenza di un atto già realizzatosi.
Big Little Lies è fortemente simbolico e al tempo stesso reale, non risparmiando allo spettatore scene di violenza inaudita, che mostrano il dolore muto che le lussuose case in cui vivono le nostre protagoniste (quasi tutte) nascondono e che le chiacchiere di una comunità, oppressivamente presente solo per puntare il dito, non conoscono.

Reese Witherspoon, Nicole Kidman e Shailene Woodley sono le capofila di uno straordinario ensemble femminile, guidato da un comprensivo e mai invadente Jean-Marc Vallée, la cui firma registica fa sì che questo progetto sarà ricordato come uno dei migliori mai prodotti dalla HBO e mai visti in televisione. Il comparto tecnico è sicuramente il punto di forza di Big Little Lies, la sua migliore realizzazione. Nelle sette ore che compongono quello che è in definitiva un lungo film a puntate, tutto ha un suo equilibrio, dalla recitazione al montaggio alla fotografia per arrivare alla colonna sonora, che non è un mero accompagnamento musicale ma un vero e proprio elemento di approfondimento delle scene in cui è inserita (come lo stesso epilogo egregiamente rappresenta, per dirne una su tutte).
Si arriva su quella spiaggia correndo, seguendo quelle orme che speravamo nel primo episodio di ritrovare ancora dopo l’arrivo delle onde. Ma non sono più le impronte minacciose e terrificanti di un dolore che non tornerà più. Sono i segni di una speranza da coltivare, di un miraggio in cui è ancora possibile riconoscere un bagliore di luce. Di un futuro in cui finalmente saremo capitane di una barca che appartiene solo a noi.
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