
Barriere: la recensione del film di Denzel Washington
Titolo: Fences
Genere: Drammatico
Anno: 2016
Durata: 139’
Regia: Denzel Washington
Sceneggiatura: August Wilson
Cast principale: Denzel Washington, Viola Davis, Mykelti Williamson, Saniyya Sidney, Russell Hornsby, Jovan Adepo, Stephen Henderson
Barriere (Fences il titolo originale) è l’adattamento di un’opera teatrale di August Wilson, considerata uno dei capolavori del drammaturgo e della letteratura teatrale afroamericana. E’ il sesto dramma del “ciclo di Pittsburgh” e il suo debutto risale al 1983. Andato in scena a Broadway nel 1988, ha vinto il Premio Pulitzer per la drammaturgia e il Tony Award alla migliore opera teatrale.
Credo, o almeno spero, che ad oggi, il dover sottolineare la presenza di una minoranza etnica all’interno di un contesto lavorativo, educativo, sociale sia poco corretto. Tuttavia, in questo caso, parlerò di colore di pelle e di razze per un motivo bene preciso. Nella cinematografia, infatti, accade che la presenza di un attore/attrice appartenente a una certa etnia, sia voluta dal regista per tre motivi generalmete: per le qualità attoriali dell’interprete scelto, per un non troppo velato tentativo di captatio benevolentiae o semplicemente per necessità di trama. Barriere, rientra in questo sottoinsieme. Ecco perchè, secondo me, in questo la scelta di dover puntualizzare il fatto che ci sia un cast di colore, risulta funzionale all’analisi del film stesso.

Etnie, razzismo, etimologia, titoli originali… ma non stavamo parlando di Fences?
Assolutamente sì. Iniziamo dal titolo… In Fences non si fa riferimento a barriere, se non a steccati, staccionate che Troy, interpretato da Denzel Washington, self-made men nell’America degli anni ‘40, vuole erigere per proteggere la sua famiglia dal vicinato. In realtà, nessun membro della famiglia riesce a capire l’utilità e soprattutto l’urgenza di innalzare una linea di demarcazione fisica tra il mondo esterno e il focolare domestico, la classica detached house da quartiere periferico americano. Lo steccato voluto da Troy si tramuta gradualmente in un pretesto che porterà i protagonisti a confrontarsi, a volte con toni piuttosto accesi, su annose questioni familiari.
Troy si sente in debito con il destino e con Uncle Sam per averlo fatto nascere in una famiglia di 11 figli, per averlo abbandonato a se stesso all’età di 14 anni, per averlo illuso con una carriera da professionista nel mondo del baseball, per averlo mandato in guerra e per tutti i bastoni che le ruote di Troy hanno dovuto schiacciare per poter condurre un percorso di vita dignitoso. E soprattutto, Troy ce l’ha con Cory, il suo secondogenito, che giorno dopo giorno prova a fargli capire che forse, la battaglia che sta combattendo da anni contro la società bianca è già finita da decadi e che finalmente le persone di colore hanno iniziato ad usufruire del dono dell’uguaglianza. A Cory, infatti, verrà offerta una borsa di studio di prestigio grazie alle sue doti di palleggiatore e sarà proprio la rigidità mentale di Troy a rovinare l’incanto del sogno americano, rappresentato da un nucleo familiare dinamico, coeso e ben integrato con la comunità del quartiere.
In condizioni di concorrenza perfetta, implausibili in economia come nel cinema, anche Denzel Washington avrebbe potuto vincere l’Oscar come migliore attore e nessuno avrebbe avuto nulla ridire. Ma siamo nell’anno di La La Land, e chissà anche di Manchester By the Sea e il premio andrà a uno tra Mr Ho Tre Espressioni e Basta Ryan Gosling o Mr Sono Io l’Affleck che Conta Casey Affleck. Mr Washington non otterrà probabilmente alcun riconoscimento e questo dispiace ai cinefili che si emozionano, quando vedono un interprete – regista che mantiene alto l’interesse dello spettatore con una prestazione attoriale vibrante, catartica, intensa e intrisa di contenuti forti e che si protrae per 2 ore e 40 circa.
Molto spesso le uniche barriere esistenti sono quelle che si ergono nel nostro inconscio
Il film si svolge quasi interamente nel giardino della casa dei Maxson ed è un fluire di dialoghi, flussi interiori, risate, amore, condivisione, generosità, rabbia, rancore e scontri che riducono a brandelli relazioni sentimentali cementificate dal tempo e legami di sangue.
Barriere è un film che parla degli effetti del razzismo e delle sue assurdità sull’identità culturale di una persona. Troy è nato e cresciuto con la discriminazione davanti agli occhi e non crede a coloro che dicono che il vento stia cambiando, e neanche ai neri che pretendono gli stessi diritti dei bianchi. Il fatto che il figlio la pensi diversamente da lui lo mette a disagio perché sente di essere nato in un’epoca sbagliata e che forse, se avesse avuto le stesse opportunità del figlio, avrebbe condotto un’esistenza diversa. Ma, come avrete intuito, il razzismo non è l’unica tematica al centro del plot di un film che analizza un’altra tematica spigolosa: l’invidia provata da certi genitori nei confronti dei figli che raggiungono gli obiettivi che loro stessi si erano preposti e che non hanno raggiunto unicamente per pigrizia o per mancanza di talento proprio.
Fences coinvolge sorprendendo dialogo dopo dialogo, decennio dopo decennio nella narrazione della vita di Maxson. Dagli occhi degli attori traspare l’autenticità di chi ha realmente “vissuto il copione”, e questa non è una qualità da poco. Esperienze di vita e passione si incontrano creando un’alchimia perfetta che probabilmente non basterà per ricevere il premio di miglior film ma che lascerà il segno nella memoria di chi avrà l’occasione di vederlo.
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