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American Horror Story: recensione dell’epsodio 2.10 The Name Game

American Horror Story torna dalle vacanze in piena forma, cominciando a sbrogliare qualche matassa e avviandosi a passi lunghi verso il finale di stagione, fissato per il 23 Gennaio. Ryan Murphy ha dimostrato più volte di essere un eclettico della televisione, prendendo per le corna le proprie serie, con risultati talvolta altalenanti. Probabilmente per lui American Horror Story è stata un’esigenza. La voglia di liberarsi dallo schema classico della serie tv. E noi gioiamo di questo.

ahs-210-06 Infatti una delle caratteristiche più interessanti di American Horror Story è proprio il suo essere slegata dall’aderenza narrativa di stagione in stagione. Essere liberi ogni volta di ripartire completamente da zero, cambiando scenario, tempo, personaggi, background, mantenendo come costante solamente il contenitore “horror”, unitamente alla brevità delle stagioni, permette di creare delle storie coerenti, piene, ritmate, incalzanti e di conseguenza estremamente godibili. Inoltre, rispetto alla prima stagione, Asylum si è anche evoluta, assumendo un valore narrativo maggiore in senso verticale, quindi di episodio in episodio, dove invece la prima stagione risultava a tratti frustrante nel singolo episodio ma assolutamente ideale se vista nell’insieme.

Quello che non è cambiato è lo stile del “o tutto o niente”. Nella prima stagione Ryan uccideva uno o due persone ad episodio. In Asylum ci ha dato dentro mettendoci tutti i temi a cui poteva pensare. Il sessismo, i nazisti, i mostri, l’abuso, il manicomio, gli alieni, i serial killer, il diavolo, l’angelo della morte… Fino ad ora tutto è proceduto come programma e noi spettatori più volte ci siamo chiesti: come caspita farà a uscire da questa matassa di argomenti?

ahs-210-02The Name Game comincia a rispondere a questa domanda. In una botta sola chiudiamo il tema dei nazisti, il tema del diavolo e il tema degli esperimenti scientifici pazzi. Monsigor Timothy Howard è sopravvissuto al tentativo di omicidio compiuto su di lui da Leigh nell’episodio precedente. Gli era apparso l’angelo nero della morte, venuto però non per portarlo via, ma bensì per rivelargli la presenza del diavolo nel corpo di Sister Mary. Ed è proprio la demoniaca suora che lo prende in cura. Anche troppo, fino ad abusare di lui sessualmente (anche se non sembrava fosse poi troppo dispiaciuto, come fa notare lei stessa). Howard andrà a chiedere consigli spirituali a Judy, che nella sua difficile situazione mentale riesce comunque a dire “uccidila”. Ed è così che andranno le cose. Dall’alto della rampa di scale dell’Asylum, grazie ad un momentaneo ritorno dello spirito di Mary ai danni del controllo del diavolo, Timothy la butta giù, uccidendola. Appare così l’angelo nero che dice “Vi porterò via entrambe”, lasciandoci capire che il diavolo è uscito da Briarcliff.

ahs-210-04Mary era il cruccio del Dottor Arden, il nazista sadico, che in questo episodio raggiunge il culmine della sua fragilità. Forse il suo amore/ammirazione per Mary era sincero. Non riusciva più a vederla così corrotta nello spirito. Come se la Sorella rappresentasse in qualche modo una via per la luce, una via persa per sempre per colpa del diavolo. Decide di farla finita. Uccide i mostri dell’esperimento fuori da Briarcliff e una volta morta Mary, dopo aver convinto il Monsignore a cremarla, si sdraia sul corpo di lei ed entra nel forno crematorio, suicidandosi e unendo così per sempre le sue ceneri a quelle dell’amata Mary. Una scena decisamente intensa e bella. Una chiusura di episodio davvero significativa che chiude così le due tematiche dei nazisti e degli esperimenti scientifici sadici.

ahs-210-07Una scena che mi ha lasciato un po’ sorpreso, ma che riguardandola ho apprezzato per il suo gusto morbosamente particolare è stata la canzone. Torniamo indietro. Mary installa un Jukebox nella sala comune, dopo che nell’episodio principale Judy aveva rotto il disco/tormentone “Dominique”. Scatta il confronto sotterraneo tra le due, che culmina in Judy che viene sottoposta all’elettroshock, spinto a una potenza troppo alta dalla stessa Mary, che lascia Judy decisamente “fuori”. Fatica a ricordare, ad orientarsi, a muoversi. E quando Lana nella sala comune, il giorno dopo la terapia, le chiede se si ricorda il suo nome, Judy mette “The Name Game” al jukebox (avete presente quella canzone che è appunto un gioco con i nomi? E che spiega il gioco cantando? L’avevano usata per una pubblicità un bel po’ di tempo fa). E così parte una scena musical, una specie di Glee macabro, dove Judy è vestita da star anni 50/60, una Nancy Sinatra che canta in un manicomio. Scena a cui tutti prendono parte, un po’ alla volta, cantando e ballando. Il significato potrebbe semplicemente essere la mente di Judy che cerca a suo modo di recuperare i ricordi, o di mostrare cosa può scatenarsi dentro la mente di qualcuno che esternamente non è più “in sincro”. In ogni caso il risultato è decadentemente piacevole.

ahs-210-08Restano quindi sul tavolo solo altri due temi che però si uniscono subito, facendoci presagire una risoluzione unica. Pepper è diventata messaggero degli alieni a protezione di Grace, che ha partorito (per inciso, Pepper seria è una delizia, un tocco di gran classe). Thredson, che è appena stato nominato psichiatra fisso a Briarcliff, lo scopre e prova a usare questo a suo vantaggio. Prende Kit, lo porta da Grace, facendogli quindi vedere che è viva, in salute e con loro figlio nato e sano, e facendogli intuire che per salvarla avrebbe dovuto rivelargli dove fossero i nastri originali che aveva registrato durante le loro sessioni di terapia, nastri che scagionerebbero Kit e incastrerebbero Thredson. Ovviamente Kit cede ma non sapeva che Lana aveva recuperato i nastri, così adesso è lei a tenere in scacco il sociopatico psichiatra.

Un episodio bello, serio, intenso che al ritorno dalla pausa non delude dandoci subito un bel po’ di sviluppo della trama orizzontale. Siamo pronti per il rush finale dei tre episodi che chiudano degnamente questa bella Asylum.

Alessandro

Pianoforte a 9 anni, canto a 14, danza a 16 anni. Poi recitazione. Poi la scuola professionale di Regia Cinematografica. Poi l'Accademia di teatro di prosa. Anche grafica, comunicazione, eventi di spettacolo. Ma qui soprattutto un amore sconfinato per le serie tv americane e inglesi, con la loro capacità di essere le vere depositarie moderne della scrittura teatrale antica anglosassone.

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