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American Horror Story: Recensione dell’episodio 2.13 – Madness Ends

Tra incubi, tentavi di mollare la serie per evidente incapacità a seguire serie/film horror con distacco – per dire, la sigla di questa stagione è per me ancora inedita – alla fine ce l’ho fatta e con un po’ di ritardo ho finito questa tanto interessante quanto disturbante stagione American Horror Story. Le premesse lanciate nei primi episodi caratterizzati da una varietà di elementi anche molto diversi tra loro dagli alieni, agli esperimenti umani, al diavolo, a temi di denuncia sociale come le mutilazioni, torture nei manicomi non lasciavano chiaramente proseggiare quale sarebbe stata la strada seguita dai narratori di questa serie.
American Horror Story_213_bIl finale di stagione in questo è abbastanza sorprendente, risulta, infatti, come un film di quaranta minuti in cui sono tirate le somme delle trame aperte nel corso dei tredici episodi, senza sconvolgere o stupire ma portando lentamente gli spettatori a empatizzare con i protagonisti dell’episodio.
In particolare è Lana Winters il fulcro su cui ruotano questi quaranta minuti conclusivi e grazie a lei che veniamo a conoscenza delle sorti dei personaggi principali conosciuti nel corso di quest’avventura nel sanatorio anni 60.
La scena si sposta ai giorni nostri e assistiamo a un’intervista a Lana Winters, divenuta una stella nel firmamento della narrativa e del giornalismo d’inchiesta – l’intervista viene fatta per il Kennedy Center Honor e Lana Paulson oltre a essere stata truccata per ottenere un invecchiamento molto realistico è talmente brava che camuffa senza scimmiottare la voce e gli atteggiamenti, sembra a tutti gli effetti, una donna di settanta anni.
American Horror Story_Sarah Paulson e Evan PetersLana, grazie alla sua inchiesta su Briarcliff – il passaggio del sanatorio nelle mani dello stato non aveva certo migliorato la situazione – riesce a far chiudere il manicomio e cerca di rintracciare Sister Jude. Jude è stata salvata da Kit con il quale ha vissuto per sei mesi prima di morire di malattia. In questo frangente viene anche in qualche modo risolta la storyline riguardante gli alieni, forse questa è la cosa che mi è piaciuta di meno. I bambini di Kit hanno qualche sorta di potere magico perché aiutano Jude a superare il trauma di essere stata rinchiusa ingiustamente a Briarcliff per tutti quegli anni. All’età di quaranta anni Kit si ammala di cancro e scompare misteriosamente dopo un rapimento alieno. Evidentemente Kit era stato prescelto per qualche ragione, era forse adatto a procreare ibridi che potessero vivere sulla terra. Sembra quasi rimandare all’idea/teoria di appassionati di ufologia secondo la quale gli extraterrestri vivono in mezzo a noi, in effetti, si lascia aperta una finestra a un mistero che non voleva essere spiegato, semplicemente l’intento era di raccontare dei rapimenti alieni, così com’erano raccontati negli anni ’60.
Infine veniamo alla trama principale: Bloody Face.
American Horror Story_213_200-150Terminata l’intervista vediamo il confronto tra Johnny e Lana. Lui è lì con l’intento di ucciderla ma cede subito quando si trova a faccia a faccia con la madre che ha sempre disperatamente cercato, quello che voleva era solo essere amato dalla madre come un bambino vuole. Sebbene dal punto di vista di trama horror la spiegazione del ‘male genera male’ può sembrare attraente, in realtà come potevamo immaginare sin dall’inizio siamo di fronte a un ennesimo caso di anafettività materna. La colpa delle persone uccise dal bloody face moderno non sono da imputare alla sua origine genetica bensì al rifiuto della madre ad amarlo. La scena finale, in cui Lana riesce a togliere la pistola a Johnny ingannandolo e lo uccide è commovente e come dicevo all’inizio, lo spettatore arriva a quel momento emotivamente coinvolto; Dylan McDermott, che spesso è criticato per la sua recitazione, ha reso molto bene la scena secondo me. Parlando sempre della recitazione, non posso non menzionare Lily Rabe, Sarah Paulson e Jessica Lange che sono le tre che hanno veramente brillato in questa stagione ed è un peccato che si riconosca solo la bravura della Lange e non vengano menzionati gli altri nei vari awards – per quanto questi tipi di riconoscimento valgano poi.
In conclusione il finale di stagione mantiene l’intento generale della stagione. Se la prima aveva raccontato le paure della società, questa seconda è stata più forte e disturbante perché ha avuto la pretesa di aprire una finestra su quello che noi definiamo ‘anormale’, ponendoci davanti agli evidenti limiti di qualsiasi etichettamento la società si arroghi il diritto di fare.

Maura Pistello

Fondatore/ Admin Giornalista pubblicista Serie tv dipendente, accanita lettrice, amante del cinema e dell'arte

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