
Strano ma vero: cinque docuserie Netflix su storie vere che sembrano finte
Chi compra la gloriosa Settimana Enigmistica lo fa sicuramente per mettersi alla prova con cruciverba, sudoku, rebus e gli altri giochi. Ma tra una sfida e l’altra non si perde né le vignette umoristiche né le rubriche di curiosità.
Tipo quella intitolata Strano ma vero: brevi aneddoti su personaggi famosi e non che sono stati protagonisti di storie talmente inusuali che a sentirle raccontare la prima volta si pensa spontaneamente che siano inventate. E invece sono assolutamente vere.
Come quelle protagoniste delle 5 docuserie Netflix che vi segnaliamo di seguito da recuperare.


Pepsi, where’s my jet?
Anno 1995, piena guerra della Cola. Ossia Pepsi alla riscossa per rubare alla Coca Cola il primato nel settore delle vendite di questa bibita rinfrescante. Le campagne di marketing a base di vip dal mondo dello sport, della musica e della moda hanno portato lo sfidante verso una insperata concreta possibilità di vittoria. È il momento di sferrare l’attacco decisivo e alla Pepsi lo sanno. Il momento di usare l’arma finale: una raccolta punti. Da pubblicizzare tramite l’ennesimo spot rivolto ai più giovani. Un ragazzino che si avvia a scuola indossando occhiali da top gun, giubbotto dello stesso stile, tutti ottenuti grazie ai punti Pepsi mostrati a schermo. Fino al gran finale: atterrare a scuola pilotando un jet militare Harrier a decollo verticale del valore di 32 milioni di dollari dell’epoca. Oppure del valore di 7 milioni di punti Pepsi.
Uno scherzo che nessuno prenderà mai sul serio. A meno che non tu sia un diciannovenne con molta intraprendenza e ancor più tenacia come John Leonard. Meglio ancora se hai per amico un imprenditore plurimilionario con la passione per le imprese al di fuori della norma. Che si tratti di scalare le vette dell’Himalaya dopo essere guarito da un tumore o … trovare un modo per raccogliere 7 milioni di punti Pepsi e chiedere che ti diano il jet promesso nella pubblicità dato che non c’era nessun disclaimer a dire che quella non era una vera offerta.
Pepsi, where’s my jet? è la storia della battaglia legale che da questa impensabile premessa ebbe inizio protraendosi per anni. Tra team legali che si combattono a colpi di offerte milionarie o cavilli da azzeccagarbugli, spin doctors spregiudicati e scheletri in armadi da tenere ben chiusi, pubblicitari increduli e manager interessati solo al risultato, militari alle prese con domande impreviste e giudici costretti a fare l’analisi logica dell’umorismo.
Pepsi, where’s my jet? sembra fatto apposta per la rubrica Strano ma vero, ma è anche un prodotto che intrattiene mostrando al tempo stesso il dietro le quinte delle strategie di marketing e del modo di ragionare e funzionare di una multinazionale. Soprattutto, però, è la storia di un’amicizia tra un ragazzino con la voglia di affacciarsi nel mondo degli adulti e un adulto intenzionato a mostrare come si possa essere entrambe le cose. Un’amicizia che vola più in alto di un jet da 7 milioni di punti Pepsi.


Eat the Rich: the Game Stop saga
Tra le nefaste conseguenze della pandemia da Covid 19 del 2020, ci fu anche il lockdown. Tutti a casa con più tempo a disposizione di quanto se ne fosse mai avuto. Alle volte anche troppo. Tanto da far aumentare la frequentazione compulsiva di siti web e forum su ogni argomento. Inclusi quelli di finanza dove sedicenti esperti proponevano ricette magiche per fare soldi facili investendo in borsa. Luogo comune molto veritiero vuole che a comandare il mondo dell’alta finanza siano i grandi fondi speculativi capaci di guadagnare cifre milionarie giocando sul fallimento di questa o quella compagnia. Perché tanto i piccoli investitori da soli non potranno mai smuovere niente. Da soli. E se non lo fossero, soli? Se invece decidessero di agire di comune accordo seguendo una strategia ben precisa?
LEGGI ANCHE: Docuserie: 5 (+1) titoli da recuperare su Netflix (e non solo)
Tipo decidere di far salire alle stelle il prezzo delle azioni di Game Stop, la catena di videogiochi che i fondi avevano individuato come prossima vittima. Risultato: una montante crisi finanziaria capace di portare quasi al collasso i grandi fondi con conseguenze imprevedibili e potenzialmente catastrofiche per l’intero mondo non solo della finanza, ma anche delle banche e quindi dell’economia. Una crisi globale pronta ad esplodere perché qualcuno ha giocato a fare i Robin Hood per vendicarsi di quei ricchi che avevano continuato a banchettare e accumulare conti in banca durante e dopo la crisi economica del 2008. Eat the Rich: the Game Stop saga è la storia di come ciò sia stato possibile.
Un viaggio affascinante ed istruttivo per comprendere i meccanismi astrusi, ma in verità semplici della grande finanza. Una serie di lezioni spiegate attraverso esempi concreti in una avventura raccontata attraverso un insieme di protagonisti trovatisi ad essere le persone sbagliate al posto giusto nel momento sbagliato. Eat the Rich: the Game Stop Saga da la parola soprattutto a loro. L’impiegato lasciato a casa dalla pandemia e messosi a investire online perché così aveva letto su Reddit. La casalinga che in un modo doveva passare il tempo. I tre ragazzi che cercavano solo un po’ di soldi per girare un video rap (e che neanche come rapper sono buoni). L’influencer con soldi da buttare ma soprattutto tanti follower ad imitarlo. La coppia che vive in un camper extralusso cercando qualsiasi modo pur di non dover lavorare.
Eat the Rich: the Game Stop Saga è una docuserie da vedere per capire che, ai giorni d’oggi, anche Robin Hood ruba più ai ricchi per dari ai poveri solo perché così può diventare ricco anche lui. E i poveri? Vedessero la serie per capire come non farsi fregare pure da Robin Hood.


Trainwreck: Woodstock ’99
Peace and love. Figli dei fiori e tanta musica. E pure droga, certo, ma quasi come uno strumento per favorire un clima rilassato dove tutti possano vivere in una quieta armonia. Questo era stato Woodstock nel 1969. Questa l’esperienza vissuta da Michael Lang che quel festival di musica diventato leggendario aveva contribuito ad organizzare. Perché non celebrarlo degnamente organizzandone una nuova versione a 30 anni esatti di distanza? Michael Lang c’era ancora e con lui anche altra gente disposta a rendere realtà un vago sogno. Quindi, perché non farlo?
Trainwreck: Woodstock ’99 è la risposta a questa domanda. Sintetizzabile in un severo ma tremendamente realistico monito. Perché non farlo? Perché tutto ciò che potrebbe andare male ci andrà e pure peggio di come si potesse immaginare negli incubi più spaventosi. D’altra parte, in trent’anni di cose ne sono cambiate. A partire dallo stesso Michael Lang i cui ideali da figlio dei fiori sono stati pesantemente inquinati da quello di businessman che da un concerto deve soprattutto guadagnare. Continuando con le band sul palco che sono diventate quelle nu metal come Korn e Limp Bizkit le cui canzoni sono intrise di rabbia e violenza. Proseguendo con le stesse droghe sintetiche che spingono al massimo l’adrenalina fomentando l’aggressività piuttosto che la quiete. Finendo con il pubblico che non è più in cerca di peace and love, ma di rage and fury.
LEGGI ANCHE: History of swear Words: 5 motivi per recuperare la docuserie Netflix con Nicolas Cage
Di strano ma vero in Trainwreck: Woodstock ’99 c’è come tutto ciò fosse chiaro fin dall’inizio a tutti, ma nessuno abbia fatto niente per impedirlo. Come a tutti fosse evidente di essere seduti su una distesa di cherosene costellata di bombe pronte ad esplodere e ognuno abbia invece solo cercato il fiammifero da buttarci dentro per dare fuoco a tutto. Tutti a fare a gara a chi fosse più incosciente.
Dagli organizzatori che sequestrano cibo e bevande per costringerei ragazzi a comprarle negli stand a prezzo dieci volte più alto dell’esterno. Ai vari contractors che hanno preso i soldi per i servizi igienici e di pulizia senza mai svolgerli. A Fred Durst dei Limp Bizkit che incita a distruggere tutto e, quando gli danno retta, li festeggia salendo sulle macerie con loro. Fino ad Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers a cui non sembra necessario interrompere la sua esibizione solo perché il pubblico sta incendiano tutto.
Paradossalmente, di strano ma vero in Trainwreck: Woodstock ’99 c’è che alla fine non è morto nessuno. Ma ci sono stati danni enormi, polizia in assetto da guerra, feriti e stupri. D’altra parte, se accendi la miccia ad un candelotto di dinamite e lo lanci in un deposito di polvere da sparo perché non dovrebbe esplodere tutto?


D.B. Copper, where are you?
Oggi siamo abituati a presentarci con sufficiente anticipo in aeroporto per non doversi affannare a correre da un gate all’altro perché si è perso tempo ai controlli di sicurezza. Non era così negli anni 70 quando il trasporto aereo stava diventando una normalità. Sicurezza era, all’epoca, un termine mai entrato nel vocabolario del mondo aeroportuale. Per prendere un volo non serviva neanche fare il check in o mostrare un documento. Si comprava un biglietto alla biglietteria e ci si imbarcava come se si salisse su un autobus. Fece così il 24 Novembre 1971 un tale Dan Cooper che prese un volo da Portland per Seattle. Nessuno lo sapeva, ma era iniziata una storia che, a distanza di cinquant’anni, non ha ancora un finale.
LEGGI ANCHE: La realtà al servizio della fantasia: 8 serie tv tratte da storie vere
D.B. Cooper, where are you? è il titolo della docuserie dedicata all’unico dirottatore che sia riuscito a incassare il riscatto e sparire senza mai farsi arrestare. Come? Saltando giù dall’aereo con un paracadute durante il ritorno da Seattle a Portland portandosi dietro la borsa con i 200mila dollari (circa 1 milione oggi) consegnatigli per non far esplodere la bomba che aveva nella ventiquattro ore come unico bagaglio. Una storia che sembra presa di peso da un fumetto ed infatti, strano ma vero, in parte è anche così. O da un episodio di Loki se non fosse che è proprio D.B. Cooper ad aver ispirato quella scena della prima stagione della serie Marvel. Talmente improbabile da essere vera perché finta non la si sarebbe potuta pensare.
D.B. Cooper, where are you? è, però, soprattutto una storia americana. Un racconto sulla passione tutta a stelle e strisce per i cold case con investigatori variamente improvvisati convinti di riuscire laddove in professionisti hanno fallito. Persone come Tom Colbert che dedica quindici anni a dimostrare la sua tesi su chi sia D.B. Cooper tanto da essere passato ora ad altri casi perché questo mistero l’ha già risolto. O come i tanti giornalisti investigativi convinti che l’unica persona che riuscirà a essere più famoso di D.B. Cooper è colui che ne scoprirà l’identità segreta. E poi i tanti partecipanti alle convention annuali dedicate al caso dove ai testimoni oculari dell’epoca tocca spiegare perché il padre del cugino della sorella dell’ex fidanzata del nipote dello zio non assomiglia a D.B. Cooper anche se detto di esserlo.
Una docuserie che si muove tra crime story appassionante e bizzarri avventori del bar internet sempre aperto per discutere di complotti e casi irrisolti. Che, calendario alla mano, D.B. Cooper sia probabilmente ormai morto non è importante. La caccia è sempre aperta.


Wild Wild Country
In Italia è noto ultimamente per il sito satirico “le più belle frasi di Osho” che accoppia la sua immagine ieratica a battute caustiche in dialetto romano. Ma prima di essere un meme Osho è stato un guru indiano fautore della ricerca di un sincretismo tra la spiritualità orientale e il materialismo occidentale. Un maestro che insegnava a raggiungere l’equilibrio interiore attraverso pratiche esteriori che non condannavano la ricchezza e gli agi. Tanto che Baghwan Shree Rajneesh (suo vero nome) arrivò ad avere egli stesso una collezione di 93 Rolls Royce e decine di orologi di lusso (compreso uno interamente di diamanti). Soprattutto un seguito di migliaia di devoti pronti a seguirlo fino nelle sperdute lande dell’Oregon in un ranch poco distante da un paesino di solo 40 abitanti.
Wild Wild Country è la storia di come tutto andò male. Ma molto molto male. Perché Baghwan si ritirò da subito a vita privata lasciando la gestione del tutto alla sua segreteria onnipotente. Quella Ma Ananda Sheela che trasformò il ranch in una città, un culto filosofico in una religione integralista, una comune in un colosso economico, la convivenza difficile con i vicini in una guerra senza esclusione di colpi. Fino ad avvelenare una città e progettare l’omicidio degli oppositori. Per poi lasciare tutto e tutti ed assistere da lontano ad un ritorno di Baghwan che segnò, invece, la fine di un sogno diventato incubo.
Wild Wild Country perché è una escalation di opposti fanatismi. I sannyasin di Sheela e Baghwan non erano poi così dediti alla ricerca del nirvana ultraterreno. Ma altrettanto colpevoli furono il bigottismo di un’America incapace di accettare i diversi e il fanatismo di politici e giudici in cerca di notorietà e cause da cavalcare verso il successo mediatico. La serie lascia parlare entrambe le fazioni senza esprimere giudizi lasciando che sia lo spettatore a decidere dove fossero i torti e le ragioni. Ma basta seguire gli episodi per capire che probabilmente in questa storia ci sono stati solo colpevoli e qualche innocente finitoci in mezzo per ignoranza o ingenuità.
In fondo, la lezione di Wild Wild Country è che, strano ma vero, non esistono santoni con la ricetta della felicità. A meno che non sia la propria felicità.